di Roberta Castellarin e Paola Valentini 

Il fisco li agevola, il sistema contributivo li rende altamente consigliati, ma i fondi pensione in Italia fanno fatica a prendere piede. E la crisi economica non aiuta a invertire la rotta. La legge di stabilità presentata dal Governo al Parlamento prevede un aumento dell’imposta di bollo sulle comunicazioni relative ai prodotti finanziari dall’1,5 per mille di quest’anno al 2 per mille.

Ma per i fondi pensione, invece, il fisco è più leggero. Non pagano l’imposta di bollo, né la Tobin tax e l’aliquota sul capital gain è quasi la metà di quella prevista per gli altri fondi, ossia l’11%. Nonostante questa marcia in più, forse ignota ai più, il tasso di adesione è fermo al 25,5%. Quindi soltanto un lavoratore su quattro oggi ha attivato un piano per integrare la futura pensione. Lo ha ricordato il presidente di Assogestioni, Domenico Siniscalco, nel suo intervento al dibattito di presentazione del secondo rapporto dell’Osservatorio del risparmio Unicredit-Pioneer Investments. «Nei vari sforzi di riforma delle pensioni è mancato lo sforzo simmetrico e complementare per far crescere i fondi pensione e altre forme di previdenza complementare. Da noi non c’è un vero settore dei fondi pensione perché lo Stato è stato rapace».

Siniscalco ha aggiunto anche che «se tutte le volte il risparmio gestito diventa terreno di caccia della finanza pubblica generiamo un effetto di spiazzamento».

 

Peraltro anche il perimetro della previdenza pubblica è sempre in evoluzione. Se il governo Monti aveva bloccato la rivalutazione in base all’inflazione, per il biennio 2012-2013, delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo (quest’anno circa 500 euro al mese), il decreto stabilità ha prorogato queste misure congelando per il 2014 la rivalutazione degli assegni di importo lordo superiore ai 3 mila euro. Previsto invece un adeguamento al 90% per quelle superiori a tre volte il trattamento minimo Inps, al 75% per quelle superiori a quattro volte il minimo, e al 50% per quelle superiori a cinque volte il minimo. Inoltre il meccanismo di rivalutazione non avverrà più per scaglioni. La legge di Stabilità prevede poi un contributo di solidarietà sulle pensioni sopra i 150 mila euro da redistribuire all’interno del sistema previdenziale, con intenti solidaristici. Il contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro vale in termini di maggiore entrate 21 milioni per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016. La norma sulla deindicizzazione delle pensioni produce effetti finanziari di economia, in termini di minore spesa pensionistica, pari a 580 milioni nel 2014, 1,38 miliardi nel 2015 e 2,16 miliardi nel 2016. Risparmi che, in un’ottica di equità, dovrebbero essere utilizzati per mettere il fieno in cascina per i lavoratori più giovani.

Ossia quelli che hanno più bisogno di integrare l’assegno pubblico, visto che per loro vige il meno generoso sistema di calcolo della pensione contributivo, che calcola l’importo dell’assegno in base ai contributi versati durante tutta la vita lavorativa e non solo in base agli stipendi degli ultimi anni di carriera, come nel metodo contributivo che si applica a chi nel 1996 aveva più di 18 anni di contributi (seppur in forma pro-quota per chi va in pensione dal 2012 in poi, come ha previsto la riforma Fornero). Di qui la necessità di pensare per tempo a integrare la pensione pubblica. E oggi il mondo della previdenza complementare offre diverse opportunità, non soltanto sul fronte dei comparti negoziali, ma anche su quello dei fondi pensione aperti. E grazie alla ripresa dei mercati, questi comparti hanno oggi un’arma, quella dei rendimenti, in più per convincerei autonomi e dipendenti a iscriversi. In base ai dati dei nove mesi del 2013 la performance media degli oltre 340 comparti di fondi pensione aperti è del 3,8%, mentre quella dei negoziali è del 3,5%, contro l’1,4% messo a segno dal Tfr rimasto in azienda.

 

La riforma del 2005 infatti ha introdotto il meccanismo del silenzio assenso in base al quale il lavoratore dipendente che non effettua alcuna scelta si trova automaticamente iscritto con il proprio Tfr al fondo pensione di riferimento, che può essere il comparto negoziale della propria categoria professionale o un comparto aperto ad adesione collettiva se l’azienda ha siglato un accordo ad hoc (vedere box). Gli autonomi, che non hanno il Tfr visto che sono senza datori di lavoro, aderiscono con il solo contributo personale a fondi pensione aperti con adesione individuale o alle polizze pip. Di fondi negoziali dedicati ai professionisti al momento c’è solo il Fondo sanità per le professioni mediche e il Futura, dei geometri, in rampa di lancio. Ma in alcuni casi il fondo pensione aperto è preferito dal dipendente che ha un fondo di riferimento. Ad esempio, la maggioranza degli iscritti al fondo aperto Seconda pensione di Crédit agricole è costituita da lavoratori dotati di un fondo negoziale di riferimento, mentre dagli accordi con le aziende proviene il restante 40% degli iscritti. D’altra parte oggi molte imprese sono in difficoltà e quindi gli accordi aziendali sono più difficili da stipulare. Perché questi lavoratori, che potrebbero optare per un negoziale senza perdere il contributo del datore di lavoro, scelgono un fondo aperto? «Il fondo aperto è più flessibile e più trasversale rispetto a un negoziale e ha caratteristiche che sono apprezzate nel caso in cui il lavoratore cambi contratto di lavoro. Con i fondi aperti si realizza una reale portabilità soprattutto nel caso in cui il lavoratore abbia iscritto nel fondo anche i figli a carico», spiega Nadia Vavassori, alla guida del fondo Seconda Pensione di Amundi.

 

Nel 2013 le linee azionarie, grazie al rally delle borse nell’ultimo anno, sono quelle che hanno dato maggiori soddisfazioni agli investitori. A differenza di un anno fa, quando erano soprattutto i comparti obbligazionari e garantiti ad avvantaggiarsi grazie alla riduzione dello spread. Certo anche per i fondi pensione, come per gli altri investitori, si apre ora un periodo non semplice per le scelte di asset allocation. In particolare i gestori obbligazionari dovranno affrontare una fase di tassi gradualmente in rialzo. Mentre per chi investe in equity la sfida è quella di affrontare una borsa che corre già da tempo e dove quindi non è facile trovare titoli marcatamente sottovalutati. Il tutto con un limite che ancora hanno i fondi pensione italiani, da anni in attesa della revisione delle regole sugli investimenti. A giugno dell’anno scorso si è conclusa la fase di consultazione per il decreto interministeriale sui limiti di investimento dei fondi pensione che aggiornava e rivedeva il decreto del 1996. Con le nuove regole i fondi pensione potrebbero avere un portafoglio più diversificato, che comprende anche investimenti alternativi o fondi specializzati nei Paesi emergenti. Un’occasione quindi per ammodernare l’asset allocation. Il decreto però non è ancora uscito. Ancora una volta quindi i fondi pensione devono attenersi alle vecchie regole. Fatta eccezione per qualche apertura effettuata dalla Covip con un regolamento ad hoc. Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza, si augura che il nuovo decreto ministeriale accordi opportunità ai fondi che investono in minibond, in project bond o in cambiali finanziarie. «Bisogna consentire alle forme di previdenza complementare di accedere a un più ampio spettro di investimenti», dice Corbello, «in grado di produrre ricadute economiche positive sul sistema delle pmi, mantenendo l’obbligo di sicurezza degli investimenti previdenziali imprescindibili da ogni scelta». (riproduzione riservata)