di Roberta Castellarin e Paola Valentini 

Un giovane senza lavoro sarà domani molto probabilmente un pensionato povero. Il sistema contributivo oggi in vigore lega l’assegno pubblico ai contributi versati e in aiuto dei giovani non arriveranno sostegni dello Stato sotto forma di integrazioni al minimo o maggiorazioni sociali, che invece spettano ai loro padri e ai loro nonni che ricadono nel più generoso sistema retributivo.

Ecco perché l’elevata disoccupazione giovanile è un fenomeno allarmante non solo per le conseguenze immediate, ma soprattutto perché con l’attuale sistema chi inizia a lavorare tardi o con forme di contratti precari sarà destinato a un buen retiro caratterizzato da difficoltà economiche perché avrà un magro assegno pubblico.

Non solo; la mancanza di reddito priva questi giovani anche della possibilità di iniziare a costruire per tempo una pensione di scorta. La riforma Dini del 1995 aveva previsto infatti sacrifici maggiori per i giovani e tutele superiori per le generazioni più anziane perché, si sosteneva allora, i primi hanno più tempo a disposizione per accumulare risorse tramite i fondi pensione. Nel frattempo però è esplosa la disoccupazione giovanile e sempre meno cittadini hanno trovato le risorse per iscriversi alla previdenza complementare. Con il rischio di trovarsi in vecchiaia con scarse risorse economiche.

Ma il problema non è soltanto di chi è senza lavoro. Anche tra gli occupati l’adesione ai fondi pensione è in stallo. Oggi gli scritti sono 6 milioni, soltanto il 25% della platea dei lavoratori italiani. E tra gli aderenti sono in aumento le omissioni contributive. Una situazione che allarma l’industria dei fondi pensione che subito dopo la riforma del 2007, grazie all’introduzione della possibilità di adesione alla previdenza integrativa con il Tfr, aveva visto un repentino aumento degli iscritti, ma poi c’è stata una frenata. Iniziano così a farsi strada le proposte per rilanciare le adesioni. Per esempio, Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, propone meccanismi di semi-automaticità, come è stato fatto nel Regno Unito. Damiano pensa a un’adesione di tipo contrattuale attraverso la destinazione ai fondi di categoria del contributo previsto contrattualmente a carico del datore di lavoro. Oggi infatti l’adesione dei dipendenti avviene con il silenzio-assenso: se non si effettua alcuna scelta il lavoratore si trova iscritto con il proprio Tfr al fondo di categoria o al comparto con il quale l’azienda ha siglato un accordo. Si può scegliere poi di versare un contributo aggiuntivo e in questo caso anche il datore di lavoro è tenuto a versare la sua quota (in genere tra l’1 e il 2% dello stipendio). Gli autonomi, che non hanno il Tfr, possono rivolgersi ai fondi aperti e ai piani individuali di previdenza (pip). I professionisti possono avere qualche fondo collettivo di riferimento, ma al momento c’è solo il Fondo Sanità per le professioni mediche e il Futura, in rampa di lancio e dedicato ai geometri.

 

Nella pratica i tentativi di fondi collettivi dei professionisti hanno registrato un pessimo risultato perché si scontrano con un muro di indifferenza.

Ma anche i dipendenti fanno fatica a pensare alla pensione di scorta. E si rivolge proprio ai dipendenti la proposta di Damiano che guarda al modello lanciato un anno fa nel Regno Unito perché fino al 2012 il 68% dei lavoratori del settore privato non versava i contributi per la pensione di scorta perché privi di risorse o perché senza un fondo di riferimento. Lo stipendio medio di queste persone è di circa 20 mila sterline l’anno, rispetto al salario di 30 mila sterline che percepisce il restante 32% dei lavoratori che mette da parte qualcosa per la integrare la pensione pubblica. Proprio per correre ai ripari e incoraggiare le persone a risparmiare per la pensione (visto che nemmeno nel Regno Unito la pensione pubblica da sola è sufficiente ad assicurare un adeguato tenore di vita), il governo inglese ha introdotto nel 2012 l’iscrizione automatica ai fondi pensione aziendali, lanciando per i lavoratori sprovvisti di un comparto di riferimento un nuovo fondo pensione pubblico, il Nest (National Employment Saving trust), Prevedendo anche per questo l’adesione automatica. La contribuzione complessiva è prevista pari all’8% (il 3% a carico del datore di lavoro, il 4% a carico del lavoratore e il rimanente 1% a carico dello Stato sotto forma si agevolazioni fiscali). Il fondo Nest stima che l’adesione automatica porterà per la prima volta 11 milioni di persone a risparmiare per la pensione. Molti di questo lavoratori sono occupati in piccole imprese, a volte micro-aziende, realtà che nel Regno Unito rappresentano il 30% della forza lavoro totale. Sulla stessa lunghezza d’onda la proposta di Mauro Marè, presidente del Mefop. Marè parte dalla constatazione che la previdenza pubblica italiana ha raggiunto una stabilità finanziaria dopo le sei riforme che si sono succedute negli ultimi 15 anni, fino a quella targata Monti-Fornero del 2011: «Sul fronte della riduzione della spesa sul pil, dell’importo della pensione media e del grado di copertura, siamo più avanti di altri Paesi europei». Come mostrano i dati della Ragioneria Generale dello Stato, le ultime riforme previdenziali sono state così severe che l’Italia risulta uno dei Paesi con la più bassa crescita della spesa pensionistica in rapporto al pil da qui al 2060. «Ma il sistema è stabile anche dal punto di vista sociale? Direi di noi», avverte Marè. «Eravamo convinti che l’ultima riforma fossa quella definitiva ma ci siamo dimenticati delle condizioni del mercato del lavoro, ovvero della fase in cui avviene l’accumulazione pensionistica». Marè solleva «almeno due problemi seri: i giovani con entrata molto ritardata nel mercato del lavoro e gli over 55 che sono espulsi e non trovano lavoro». Per avere pensioni adeguate, secondo Marè, è necessario studiare un meccanismo di solidarietà. Senza dimenticare che il nuovo welfare non è attrezzato per far fronte all’allungamento della vita lavorativa, che aumenta il rischio di buchi contributivi e di problemi sul fronte della salute e dell’autosufficienza.

 

Ma c’è un altro elemento da considerare. «Nell’Europa a 15 l’età media dei votanti passerà dai 44 anni del 2005 ai circa 55 anni del 2060», dice Marè. Quindi il potere economico, politico ed elettorale dei pensionati rischia di impedire un aggiustamento della spesa pensionistica a scapito della popolazione attiva. E si potrebbe passare all’impossibilità di un aggiustamento del sistema. «Si delinea un conflitto tra generazioni rilevante, difficile da evitare, ci sono già tutti i sintomi», aggiunge Marè.

Che cosa fare per rendere le pensioni più adeguate ed evitare che le giovani generazioni abbiamo una pensione povera? «Serve un meccanismo di solidarietà e bisogna ridisegnare il sistema su tre pilastri», propone Marè. Al primo pilastro, quello «di base», si potrebbe affiancare un secondo pilastro, l’iscrizione al quale sarebbe obbligatoria, con possibilità però di uscita, e un terzo rappresentato dai fondi pensione con un’adesione volontaria. Secondo Marè, il primo pilastro potrebbe essere finanziato con risorse interne al sistema, per esempio con un contributo di solidarietà sulle pensioni elevate. Ma questo modello rischia di dare un gettito modesto, anche se garantisce una forma di equità. Proprio Marè, assieme all’ex premier Giuliano Amato, ha studiato la proposta di costituire un fondo comune per l’equità previdenziale alimentato anche da un contributo a carico delle pensioni d’oro, volto ad alzare il livello della pensione minima. Altra modalità è quella di finanziare il pilastro «di base» con risorse esterne ovvero con la fiscalità generale ma colpendo basi imponibili diverse dal lavoro dipendente. In ogni caso sarebbero da definire le condizioni di accesso alla pensione di base.

Mentre sul fronte della previdenza complementare per rilanciare le iscrizioni è «ora di dire la verità con una campagna di informazione decisiva. Va avviata la busta arancione, sempre annunciata ma mai applicata dall’Inps», aggiunge Marè. Il problema è che però, «per varie ragioni, come l’inerzia, i lavoratori anche informati potrebbero non aderire; quindi come risolvere il dilemma adesioni?». Qui entra in campo il secondo pilastro semi-obbligatorio basato sull’adesione contrattuale con contributo.

Un’altra strada è quella pensata da Pietro Ichino nel programma elettorale di Scelta Civica presentato a febbraio scorso, dove si legge: «A partire dalla riforma delle pensioni del governo Monti sono state ipotizzate, sia pure sul terreno programmatico e sottoposto a verifiche di sostenibilità, eventuali forme di decontribuzione parziale dell’aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi in particolare a favore delle giovani generazioni». Ichino spiega che si tratta di consentire a un lavoratore, in particolare se giovane e privo di un rapporto di lavoro dipendente (quindi nell’impossibilità di avvalersi del tfr per aderire a un fondo), di finanziare volontariamente una forma di previdenza complementare (che può essere gestita dallo stesso Inps o da altro gestore scelto dalla persona interessata) con una parte della sua contribuzione obbligatoria. «In questo modo il lavoratore potrebbe distribuire il proprio rischio previdenziale su una quota pubblica a ripartizione e una privata a capitalizzazione, senza dover sostenere maggiori costi. L’esperienza dimostra che i giovani non si avvicinano ai fondi pensione proprio perché non dispongono di ulteriori risorse rispetto a quelle che sono tenuti a versare alle gestioni obbligatorie», si legge nel documento. (riproduzione riservata)