Vittoria Puledda

A volte ritornano. E lo fanno prepotentemente, con un’impetuosità corrispondente a quella della fuga degli ultimi due anni. Nei primi otto mesi del 2013 la raccolta netta dei fondi comuni, ben 52,5 miliardi di euro, ha quasi pareggiato il risultato positivo cumulato nel 2009 e nel 2010; unico biennio, peraltro, in cui il risparmio gestito ha avuto il segno più dalla crisi del 2007 in poi. Soldi in cassa quindi, ma pochi vanno alle aziende italiane. C erto, non stiamo parlando di numeri clamorosi e se il confronto viene fatto con gli anni bui, quando i riscatti hanno travolto il sistema fin quasi a metterne a repentaglio il futuro, anche il dato positivo di quest’anno rischia di sembrare poca cosa. Dall’annus horribilis del 2007, il primo della crisi dei subprime, dal sistema del risparmio gestito sono usciti fondi per 331 miliardi di euro, e tuttora, nonostante la ripresa, i sottoscrittori di fondi sono poco più di cinque milioni, mentre nel 2002 erano nove milioni. Ma come mai adesso, nonostante la crisi, gli italiani si stanno riavvicinando ai vecchi fondi? I pareri degli esperti del settore sono praticamente unanimi: al primo posto nell’elenco delle motivazioni c’è il fatto che sono diminuite le pressioni dei maggiori collocatori di fondi – le banche – a vendere strumenti concorrenti. Il cerino infatti ce l’hanno solidamente in mano loro, anzi il loro peso è persino aumentato rispetto agli anni passati: nel 2002 gli sportelli bancari vendevano il 77% del totale dei fondi, l’anno

sorso erano all’88,3% (mentre i promotori erano scesi all’11,7%, secondo i dati Assogestioni). Però venendo meno le occasioni di far credito buono, con impieghi relativamente poco rischiosi, le banche hanno preferito approfittare delle commissioni di collocamento sui fondi e dare una mano ai conti economici. Del resto, una tendenza analoga si registra anche sui prodotti di bancassurance, che dopo anni di stanca sono tornati a fare faville in termini di raccolta. Però ci sono anche ragioni strutturali, legate al ciclo della vita dei fondi comuni. Che dopo gli anni della grande euforia e della crescita vivace negli anni Novanta – quando erano arrivati a pesare fino al 18% delle attività finanziarie delle famiglie (quando gli altri paesi europei più evoluti sotto questo profilo erano fermi al 10-12%) e dopo la reazione di panico e di disaffezione altrettanto violenta a cavallo del secolo (il punto di minima è stato toccato quando il totale del risparmio gestito è sceso fino al 4-5 % circa del totale delle attività finanziarie delle famiglie) ora c’è un nuovo cambiamento. Probabilmente più maturo e anche più sostenibile nel tempo. «A questo punto siamo entrati nella terza fase dell’industria del risparmio gestito spiega Giordano Lombardo, presidente di Pioneer Investments management e uno dei vice-presidenti di Assogestioni – siamo in una fase di nuova maturità che potremmo definire di ‘crescita costante’, lontana dall’euforia degli esordi ma anche dai momenti più difficili». Vendere fondi comuni non è un’operazione che si limita al momento della firma iniziale, sono prodotti ‘ad alta manutenzione’, che hanno continuo bisogno di essere spiegati e motivati, dunque richiedono tempo e impegno da parte del collocatore; o per meglio dire avrebbero bisogno di essere spiegati, il che non sempre avviene, soprattutto in banca. Non a caso nonostante ci si avvicini ad una stagione di tassi in rialzo, almeno nella prospettiva dei prossimi anni, i portafogli dei sottoscrittori continuano ad essere imbottiti di prodotti obbligazionari, anzi dal 2002 al 2012 questa tipologia di fondi è passata dal 34,6% al 42,3% del totale. Insomma, quasi un sottoscrittore su due ha una forte (anche se non esclusiva) presenza di fondi obbligazionari in pancia (dati Assogestioni). Guardando le cose da un altro punto di vista, con i dati raccolti da Morningstar Italia (e relativi al portafoglio dei soli fondi di diritto italiano) si arriva alle stesse conclusioni: il patrimonio complessivo a metà ottobre 2013 è investito per il 44,4% in obbligazioni e per il 27,6% in azioni. A titolo di esempio, i soli fondi Blackrock autorizzati alla vendita in Italia investono oltre la metà del loro portafoglio in azioni e sono ben presenti anche a Palazzo Mezzanotte: il 5% in Telecom Italia e Atlantia, oltre che in Generali, Ubi, Unicredit e Mediaset. I Fondi italiani sono invece assai più restii a investire in Piazza Affari, alla quale destinano solo un sedicesimo degli investimenti azionari totali, preferendo soprattutto il resto d’Europa e il Nord America. Evidentemente il clima cupo che si respira nel paese contagia anche risparmiatori e gestori, clima dal quale negli ultimi mesi non sembrano invece contagiati gli operatori esteri che stanno tornando massicciamente in Italia. Partendo dalla diversificazione del portafoglio, «tatticamente in questa fase stiamo cogliendo le opportunità di trading sull’azionario, in scia ai segnali di ripresa economica – spiega Piermario Motta, ad di Banca Generali – con un focus attento all’Europa. Ma a livello strategico continuiamo a credere nelle prospettive dei Paesi di nuova frontiera dove i fondamentali economici sono solidi, sia sul Pil che in termini di indebitamento ». In realtà la differenza tra azioni e obbligazioni negli ultimi tempi si va più sfumando, con prodotti che cercano di dare reddito (con cedole periodiche) anche quando investono in Borsa (con strutture ibride di cui è bene controllare sempre le caratteristiche specifiche e i costi, per non incorrere in sorprese sgradevoli). Una tendenza che si è evidenziata negli anni della crisi ma che probabilmente durerà ancora. «Credo che anche in futuro ci sarà una forte domanda di prodotti che diano sostegno al reddito e nello stesso tempo difendano il più possibile il capitale: ormai il cambiamento è strutturale, c’è sempre meno voglia di prendere rischi», continua Lombardo. Un’altra evoluzione ragionevole, sempre per cercare le finestre di opportunità che non siano solo i titoli governativi – peraltro soggetti ai potenziali rialzi dei tassi di interesse, con la conseguente caduta dei prezzi e le perdite per i sottoscrittori di fondi – è quella di ricorrere a fondi multi asset, l’evoluzione dei vecchi bilanciati, o di adottare tecniche più sofisticate, almeno in parte vicine ai fondi hedge fund. Una potenzialità permessa dalla normativa comunitaria Ucits4, recepita anche in Italia, e che consente una serie di cose, tra cui i fondi Total return, ma anche di replicare in una certa misura le strategie di investimento dei fondi alternativi (mentre questi ultimi, a partire dai fondi hedge, non sono ancora vendibili al retail in Italia, ma sono riservati agli investitori qualificati). «Dal punto di vista del produttore, di chi gestisce i fondi, si andrà probabilmente sempre più verso una convergenza tra il mondo tradizionale e quello degli investimenti alternativi – continua Lombardo – Per il cliente non deve cambiare niente: noi proponiamo sempre la stessa macchina, ma le tecnologie sono diverse; già ora, ad esempio, è possibile sottoscrivere senza soglie minime di investimento prodotti a rendimento assoluto». E’ aumentato i peso delle banche nella vendita dei fondi ai risparmiatori: nel 2002 ne collocavano il 77%, ora sono all’88,3% Nel grafico qui a lato, di fonte Morningstar, le attività dei fondi di diritto italiano. Come si vede, la componente obbligazionaria ha un peso che raggiunge quasi la metà del totale investito