di Roberta Castellarin e Paola Valentini

 Pagare un’aliquota una tantum del 15-20% e dichiarare i capitali al fisco italiano? Oppure lasciare il proprio tesoro nascosto in Svizzera ma con il rischio di dover trovare presto un altro paradiso fiscale, perché il muro del segreto bancario si sta sgretolando? È il dilemma che presto si porrà a chiunque detenga capitali nella Confederazione elvetica.

Perché il trattato di pace tra Italia e Svizzera in materia fiscale potrebbe arrivare a breve. E questa volta non si tratterebbe di uno scudo temporaneo, come i tre varati da Giulio Tremonti tra il 2002 e il 2010, che fecero emergere quasi 180 miliardi, generando un gettito per le casse dello Stato di circa 8 miliardi di euro. Una cifra molto bassa per via della ridotta aliquota fiscale (dal 2,5% della prima edizione del 2002 fino al 5-7% dello scudo 2009-2010). Allo studio del governo c’è invece una vera e propria norma che permetta al contribuente, senza scadenze precise, di fare una dichiarazione volontaria con cui fare pace con il Fisco e far riemergere i capitali detenuti all’estero e non dichiarati. «Sembra proprio che nelle intenzioni del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ci sia proprio questa soluzione, cioè mettere a disposizione del contribuente italiano sempre e comunque uno strumento che gli consenta di regolarizzare i capitali detenuti all’estero, sul modello di Germania e Francia, dove è sempre possibile ravvedersi con un’autodenuncia», dice Marco Silvani, direttore generale del gruppo svizzero Lemanik.

Nei documenti che illustrano la legge di Stabilità, l’argomento è appena sfiorato, accennando che sono previsti proventi connessi con operazioni di rientro dei capitali, ma senza fare stime sul possibile gettito. Ma proprio questo provvedimento potrebbe essere l’asso nella manica del governo guidato da Enrico Letta per dare nuove risorse allo Stato da destinare all’economia. Una conferma è venuta anche dallo stesso Saccomanni, che ha rivelato nei giorni scorsi l’intenzione di presentare «una norma permanente» che disciplini il rientro dei capitali esportati all’estero. Incontrando la stampa estera, l’ex direttore generale della Banca d’Italia ha infatti parlato di un doppio regime «che favorisca il contribuente leale e punisca quello sleale». Con la Svizzera «c’è un negoziato in corso», ha aggiunto Saccomanni. Su questa misura strutturale volta ad agevolare il rientro dei capitali detenuti illecitamente oltreconfine e disciplinare l’antiriciclaggio, il governo è al lavoro con l’aiuto del procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco.

 

Il sistema ricalca un meccanismo suggerito dall’Ocse e già adottato da altri Paesi. «Un ulteriore strumento di grande utilità per la rilevazione di capitali illecitamente esportati e il conseguente incremento dei recuperi a tassazione potrebbe rivelarsi l’introduzione di incentivi a favore dei contribuenti che si autodenunciano», scrive il ministero della Giustizia nella relazione conclusiva della Commissione Greco per lo studio sull’antiriciclaggio datata 23 aprile 2013. «La Commissione Greco auspica che tali meccanismi, attualmente non previsti dall’ordinamento italiano, comportino l’obbligo per il contribuente che si autodenuncia di provvedere al pagamento per intero delle imposte evase, senza alcuno sconto», spiega Fabrizio Vedana, vicedirettore generale di Unione fiduciaria.

Il quale sottolinea invece la necessità di ridurre l’imposizione fiscale. «Potrebbe essere invece prevista un’attenuazione, anche molto sensibile, delle relative sanzioni amministrative con una differenziazione del trattamento sanzionatorio a seconda del momento in cui l’autodenuncia avviene. Qualora poi questa abbia luogo prima dell’avvio dell’attività d’indagine, si potrebbe anche escludere la sanzione penale applicando soltanto quelle amministrative, avendo cura di calibrare l’importo per tenere conto del comportamento collaborativo avuto dal contribuente».

Il nodo da sciogliere è infatti quello dei profili penali. In attesa di chiarimenti su questo fronte l’Agenzia delle Entrate si è già mossa in anticipo rispetto ai passi del governo. Questa estate infatti è partita una fase di sperimentazione grazie alla circolare dell’Agenzia delle Entrate 25/e (del 31 luglio 2013) che attribuisce all’Unità centrale per il contrasto dell’evasione internazionale (Ucifi) «il compito di sperimentare l’azione di contrasto nello specifico settore anche attraverso lo sviluppo di attività volte alla voluntary disclosure di attività economiche e finanziarie illecitamente detenute all’estero da contribuenti nazionali», si legge nel documento. E già alcuni commercialisti si sono attivati per contattare l’agenzia e capire meglio di cosa si tratta, come sottolinea Vedana: «Alla luce di quanto sopra, qualche professionista, per conto di propri clienti, ha fatto visita all’Ucifi per verificare tempi, costi e modalità di utilizzo della citata procedura di voluntary disclosure», ovvero di dichiarazione volontaria di regolarizzare i capitali detenuti illecitamente all’estero.

«Nelle prossime settimane si attendono maggiori chiarimenti da parte dell’amministrazione finanziaria. Il conferimento alla fiduciaria italiana di un mandato al fine di gestire, in qualità di sostituto d’imposta, la fiscalità delle attività finanziarie e/o patrimoniali oggetto di voluntary disclosure, potrebbe rappresentare una concreta risposta a quanti intendono fare pace con il Fisco senza rinunciare a mantenere all’estero le attività finanziarie», aggiunge ancora Vedana. A differenza degli scudi fiscali di Tremonti, i cittadini perderebbero l’anonimato, e in base a come vengono utilizzati i capitali dichiarati al Fisco italiano l’amministrazione potrebbe dare qualche discrezionalità di trattamento.

 

Secondo una stima recente di Renato Brunetta, capogruppo alla Camera del Pdl, le attività finanziare detenute in Svizzera da cittadini italiani potrebbero essere 100-120 miliardi di euro. Nel caso quindi di un’aliquota fissata al 20% l’incasso per lo Stato sarebbe di 20 miliardi una tantum più 2 miliardi di flusso a regime. Proprio la definizione dell’aliquota avrà un ruolo importante. E gli operatori si aspettano un livello intorno al 20%. «La misura sarà decisiva perché magari con un 15-20% il cliente può essere disposto a mettersi in regola, se è superiore è possibile che lo stesso decida di non fare nulla, accettando comunque il rischio di un possibile accertamento dell’Agenzia delle Entrate in futuro», prosegue Silvani. E visto che i centri off-shore stanno indebolendosi uno dopo l’altro, Svizzera in primis, chi non regolarizza potrebbe essere costretto a migrare in un altro paradiso fiscale che ancora difende il segreto bancario. «Ma credo che nel mondo prima o poi tutti i vari centri off-shore diventeranno più rigorosi con i capitali non dichiarati», aggiunge Silvani. La guerra ai paradisi fiscali infatti si sta facendo più dura visto che gli Stati devono ridurre il debito pubblico e tagliare la spesa. D’altra parte la posta in gioco è alta, visto che i capitali ancora nascosti nei paradisi fiscali ammontano a 21 mila miliardi di dollari, secondo un’analisi di James Henry, ex capo economista di McKinsey. Una cifra enorme, equivalente al valore delle economie americana e giapponese messe insieme. «Il gettito fiscale che gli Stati perdono è enorme, e tale da fare la differenza per i bilanci di molti Paesi», afferma Henry, dal cui report emerge anche che a fine 2010 le maggiori 50 private bank del mondo gestivano a livello mondiale più di 12 mila miliardi di dollari della clientela. In testa ci sono le banche svizzere, come Ubs e Credit Suisse. Così non è un caso che gli Usa abbiano da poco firmato con lo Stato elvetico l’accordo Facta (Foreign account tax compliance act): in questo modo i conti dei cittadini americani presso le banche elvetiche saranno dichiarati al Fisco Usa, che potrà così tassare anche questi capitali. Un elemento che dimostra che l’offensiva contro i centri off-shore sia guidata dagli Stati Uniti alle prese con un debito che continua a pesare sulle potenzialità di crescita del Paese. E proprio la Svizzera, intuita l’aria che tira, sta cambiando strategia e, da paradiso fiscale, cerca di diventare un centro finanziario trasparente. L’ultimo passo in questa direzione è stato mosso dal Consiglio federale, che ha disposto l’entrata in vigore, dal primo novembre prossimo, della revisione parziale della legge sul riciclaggio di denaro, consentendo la condivisione delle informazioni finanziarie con i Paesi esteri. Non solo. La Svizzera è diventata il 58 esimo Paese a siglare il protocollo dell’Ocse sulla reciproca assistenza amministrativa in materia fiscale. Dallo scambio di dati, spontaneo e su richiesta, alle verifiche fiscali simultanee, fino ad arrivare all’assistenza nella riscossione delle imposte. Il modello di convenzione siglato dalla Svizzera offre anche la possibilità di effettuare uno scambio automatico di dati, ma soltanto previo accordo tra le parti.

Le novità non finiscono qui. Il Consiglio federale ha rinviato nei giorni scorsi alle Camere i risultati della procedura di consultazione sulla revisione parziale della legge sull’assistenza amministrativa fiscale, che prevede di informare le persone oggetto di una procedura soltanto a posteriori, previa fornitura da parte dello Stato richiedente di una giustificazione in cui si afferma che l’informazione preliminare vanificherebbe il buon esito dell’indagine. Fino a oggi, la legge prevedeva che i contribuenti interessati fossero informati, tutti senza eccezione, prima della trasmissione dei dati allo Stato richiedente.

E al di là dell’evoluzione normativa, anche la prassi sta cambiando. Di fatto i grandi colossi elvetici hanno deciso, per non ricorrere in sanzioni internazionali e non vedere ostacolata la loro operatività, di diventare più selettive nella scelta dei clienti. In particolare molte banche elvetiche stanno chiedendo ai clienti esteri di firmare un formulario in cui attestino la conformità alle norme fiscali del Paese d’origine. «In Svizzera sono sempre più numerose le banche che accettano solo clienti in regola con il Fisco del Paese di origine», precisa Silvani. Le private bank più grandi già da qualche mese hanno avviato la «strategia del denaro pulito» invitando i clienti stranieri, pena la chiusura di tutti i rapporti, a dichiarare nel Paese d’origine i capitali depositati. Ma oggi molti altri istituti più piccoli hanno seguito questa strada e nell’ultimo periodo la clientela italiana è stata contattata affinché fornisca l’autocertificazione con la quale dichiara che il denaro depositato è conosciuto al Fisco. Cresce quindi la pressione anche sui clienti italiani. E non stupisce che in questo periodo diversi professionisti siano stati contattati dalla clientela per avere maggiori informazioni circa la dichiarazione volontaria dei capitali detenuti all’estero. (riproduzione riservata)