I convegni sul tema si susseguono a raffica, l’interesse dell’Abi per la materia è risaputo e nell’attuale contesto di crisi non si può certo dire che i vantaggi della finanza islamica passino inosservati. Tuttavia, nonostante il fervore che si registra intorno ad esso, in Italia questo particolare modello economico nato a Dubai negli anni 70 fatica a fare breccia. A causa della crisi le modifiche normative che dovevano servire a introdurre i bond islamici (sukuk) e altri strumenti finanziari rispettosi dei principi della Sharia, che per prima cosa vieta i prestiti a interesse, sono state rimandate a data da destinarsi. C’è solo un piccolo spiraglio che interessa il mercato retail. Qualcosa infatti si muove nel mondo del credito al consumo e da parte di alcune società che operano nel settore sta incominciando a farsi sentire la voglia di andare oltre le parole. Se n’è accorta Deloitte, all’opera per sviluppare prodotti compatibili con l’ordinamento italiano. Come? Aggrappandosi al leasing. In Italia vivono quasi 1,5 milioni di musulmani. Da un’indagine condotta dalla società, leader sul fronte dei servizi alle imprese, è emerso che il 40% sarebbe interessato a una soluzione creditizia finalizzata all’acquisto di un mezzo di trasporto, mentre il 46% è in attesa di un prodotto finanziario tagliato su misura grazie al quale comprare casa. «La nuova normativa sul leasing», spiega Alberto Liotta, partner Deloitte esperto di finanza islamica, «offre da questo punto di vista la possibilità di mettere a punto alcune soluzioni in accordo con i dettami della legge islamica in modo da andare incontro ai richiedenti musulmani. Basta islamizzare i prodotti convenzionali presenti in questo ambito tramite degli accorgimenti mirati». Un’opera di mimetizzazione simile a un piccolo intervento di make-up che a breve potrebbe dare frutti. «Il leasing», prosegue Liotta, «può essere utilizzato come uno strumento per consentire alla clientela musulmana di acquistare un’automobile attraverso il ricorso a uno strumento di finanziamento compatibile alla propria religione, la Ijara, contratto nell’ambito del quale il finanziatore compra un bene reale per conto del cliente e glielo concede in locazione in cambio del pagamento di un canone. Affinché ciò avvenga è sufficiente adottare una serie di misure, a partire per esempio dalla revisione del tradizionale approccio utilizzato per gli interessi di mora». Spazio anche alla Ijara wa iqtina, contratto analogo alla Ijara che alla fine del periodo di locazione prevede però che la proprietà del bene venga trasferita al locatore. Finora questo tipo di soluzione poneva un problema sotto il profilo della convenienza: con la normativa italiana comportava infatti la necessità di eseguire due differenti atti notarili. «Problema risolto con la legge 220 del dicembre 2010 che ha introdotto il leasing abitativo, sistema in base al quale è la società di leasing che acquista l’immobile a farsi carico delle spese notarili e delle imposte », sottolinea l’esperto di finanza islamica di Deloitte. Si stima che in Italia il mercato abitativo islamico potenziale sia pari a 95 miliardi. Leasing a parte, in ottica futura si guarda alla possibilità di sviluppare conti correnti partecipativi, detti anche «investment accounts », che sono depositi a temine con i quali la banca acquisisce la disponibilità dei fondi conferiti dai clienti con l’obbligo delle restituzione a scadenza. L’unico ostacolo risiede nel Fondo interbancario di tutela dei depositanti: il credo musulmano, consentendo la compartecipazione al rischio d’impresa, non prevede la garanzia per le somme investite. Per quanto riguarda i sukuk bisognerà invece aspettare ancora molto. I bond islamici, in crescita esponenziale a livello internazionale, si differenziano dalle obbligazioni di stampo occidentale innanzitutto perché al fine di rispettare le leggi coraniche devono avere un bene concreto sottostante; in Italia continuano ad avere la strada sbarrata dal quadro normativo ostile. E di banche islamiche nemmeno l’ombra: eppure in Italia i ricavi potenziali per l’islamic banking nel 2015 raggiungerebbero quota 170 milioni. Un affare che conviene non lasciarsi sfuggire, insistono gli addetti ai lavori, imitando quanto fatto dagli altri Paesi europei che non hanno perso tempo; dall’Inghilterra (cinque gli istituti finanziari islamici presenti nel Regno Unito) alla Spagna (che ha siglato un protocollo d’intesa tra il Dubai International Financial Centre e il Madrid Centro Financiero), dalla Francia (dove molte banche offrono prodotti sharia compliant) alla cattolicissima Irlanda (che ha lavorato per facilitare l’emissione di sukuk). (riproduzione riservata) Francesco Bisozzi