DI ANDREA RESTI* UNIVERSITÀ BOCCONI

Ha ancora senso che le banche investano in personale qualificato e modelli econometrici per gestire i rischi finanziari? A volte ho l’impressione che se Beppe Grillo, anziché prendersela con i politici, avesse preso di mira i risk manager, avrebbe già raggiunto il 5 per cento. I professionisti dei rischi in banca sono infatti in crescente difficoltà. Vengono accusati di non avere visto arrivare il treno della crisi finanziaria e di implementare modelli sempre più costosi ma intrinsecamente inefficaci, perché alimentati dai dati passati e quindi intrinsecamente incapaci di intercettare per tempo le discontinuità, i crolli da cui dovrebbero proteggere azionisti e risparmiatori. E forse un Beppe Grillo c’è. Solo che non fa il comico ma il responsabile della stabilità fi nanziaria in una delle più importanti istituzioni del mondo, la Bank of England. Si chiama Andrew Haldane e, qualche settimana fa, ha messo a rumore la comunità bancaria mondiale chiedendo di rottamare i modelli econometrici troppo complessi, e le regole di vigilanza che a tali modelli fanno riferimento, per sostituirli con poche regolette di buon senso. Se vince Haldane, dovremo preparare spazio in cantina per il riskmanager, facendogli posto tra i dischi di vinile e il Commodore 64? La domanda ha un che di irriverente, nel giorno in cui a Milano si riuniscono in conclave, a porte chiuse, i responsabili della gestione rischi di tutte le banche italiane. E per questo va fatta, ad alta voce e guardando avanti. Proprio come la politica, il risk management paga un prezzo di impopolarità per avere tenuto sigillate le fi nestre mentre fuori aumentavano l’instabilità e il disagio. Modelli sempre più eleganti e complessi venivano concepiti e edifi cati, con professionalità straordinarie e budget sostanziosi, su un pavimento segnato da vistose e crescenti crepe. Se queste non si aggiustano, anche i modelli più sofi sticati crolleranno, e certo non perché siano concepiti male. La crepa più vistosa si chiama confl itto di interessi. In molte realtà, ancora oggi, il risk manager di successo è quello che riesce a far risparmiare capitale alla sua banca convincendo le autorità di vigilanza che i rischi sono modesti e sotto controllo. Non quello (e ce ne sono) che invece porta il fi schietto alla bocca indicando i prodotti troppo pericolosi, i portafogli di investimenti dall’esito eccessivamente incerto, le concentrazioni di rischi in capo a pochi settori (magari cari agli azionisti di controllo). Finché non verrà rimosso questo schema perverso di incentivi alla collusione, pare diffi cile recuperare la credibilità perduta. Perché ciò accada, non bastano le prese di coscienza e i pur lodevolissimi richiami alla professionalità e all’etica, come quelli che da tempo giungono dall’Aifi rm, l’associazione di categoria. Né è suffi ciente il controllo autorevolmente esercitato sui modelli di risk management dalla Banca d’Italia. Devono cambiare gli amministratori delle banche, perché solo da loro dipende il successo dei risk manager perbene. Serve indipendenza dagli interessi economici dei grandi debitori, servono minoranze capaci di esercitare il controllo, ma serve soprattutto una maggiore preparazione tecnica, affi nché i messaggi lanciati dai bravi cacciatori di rischi non cadano nel vuoto dell’incompetenza. La partita dei risk manager si vince in CdA; o magari si perde, stiamo a vedere. *andrea.resti@unibocconi.it