di Andrea Bassi e Antonio Satta

Il meccanismo tecnico non è stato ancora del tutto perfezionato, ma l’obiettivo è chiaro: far incassare al Fisco circa 500 milioni all’anno, per cinque anni, facendo meno male possibile a chi questi soldi li dovrà tirare fuori: ossia le banche. Avendo il compito non semplice di reperire tra tagli alle spese e nuove entrate ben 13 miliardi di euro, i tecnici di Via XX Settembre hanno dato fondo alla loro inventiva, convincendosi così che una parte di quella cifra si poteva trovare rinviando di un lustro una misura concessa meno di un anno fa alle banche e utilizzabile a partire alla prossime scadenze fiscali. Si tratta dei crediti verso l’Erario derivanti dalle imposte anticipate iscritte a bilancio (Deferred tax assets, in codice Dta). Il meccanismo ideato da Giulio Tremonti e perfezionato da Mario Monti nel primo decreto salva-Italia doveva permettere alle banche, in caso di perdite di bilancio, di effettuare una compensazione tra debiti e crediti fiscali, in particolare quelli accumulati per effetto di norme tributarie che impediscono agli istituti di dedurre subito dai ricavi diversi costi di produzione del reddito. Le banche, per esempio, devono spalmare su 18 anni la svalutazione dei crediti in sofferenza, mentre devono essere distribuite su vari esercizi anche le svalutazioni di avviamento, marchi, brevetti e tanti altri beni immateriali. Visto che nei bilanci delle banche si stavano accumulando in questo modo enormi crediti verso lo Stato, prima Tremonti e poi l’attuale premier, come si è detto, avevano concesso agli istituti di utilizzare una quota di questi crediti per compensare debiti fiscali (e quindi pagare meno tasse). Solo che ora i soldi servono subito, di qui il rinvio quinquennale che varrà, secondo fonti di Via XX Settembre, all’incirca mezzo miliardo di euro all’anno. Le banche non perderanno i crediti, che resteranno iscritti nello stato patrimoniale (non aggravando i già onerosi obblighi di Basilea 3). Ma dovranno rassegnarsi a pagare un po’ di più nell’immediato, per recuperare poi tra qualche anno. Quasi un prestito forzoso, che certo non ha fatto piacere agli istituti. L’Abi, del resto, ricorda da tempo che il sistema creditizio italiano non patisce solo l’handicap dello spread, ma viene anche penalizzato da norme fiscali che a differenza di quanto accade in altri Paesi non consentono di dedurre le perdite su crediti e gli interessi passivi, cioè due delle principali voci di costo. Si viene così a determinare, sostengono i banchieri, un sostanziale divorzio tra bilanci civilistici e bilanci fiscali. Le tasse sugli utili, in sostanza, si pagano in base alle cifre che risultano su questi ultimi, e che non sono quelle effettivamente prodotte. La manovra, comunque, non si limita a spremere soltanto le banche. Ce n’è anche per le assicurazioni. E pure in questo caso il meccanismo prescelto è un sostanziale anticipo di cassa della cifra che ogni anno le compagnie pagano sulle riserve matematiche per il ramo Vita. Il prelievo sarà portato dallo 0,35% allo 0,50%, per poi calare allo 0,45% nel 2014. Da Tokyo, dove è volato per partecipare alla riunione del Fondo monetario internazionale, il ministro Vittorio Grilli butta un po’ di acqua sul fuoco delle polemiche, ricordando che la legge di stabilità «non è un decreto ma un disegno di legge: dunque per definizione siamo disponibili» al confronto. «Abbiamo dato gli obiettivi e gli strumenti per raggiungerli nel modo che pensiamo più giusto», ha osservato il ministro, «poi il parlamento può modificarlo entro il quadro finanziario da esso stesso approvato con l’aggiornamento del Def». (riproduzione riservata)