Le tensioni sull’economia mondiale si riflettono inesorabilmente anche sull’industria italiana del risparmio gestito, che chiude anche settembre con una raccolta in (forte) flessione. Stando alla fotografia scattata nel mese da Assogestioni, l’Associazione delle società di gestione del risparmio, il sistema tricolore ha bruciato complessivamente, tra gestioni collettive e gestioni di portafoglio, poco più di 6 miliardi di euro. E il patrimonio complessivo, complice anche l’effetto mercati, è scivolato a 950 miliardi (a fine agosto le masse totali si erano attestate a 972 miliardi), di cui il 51% riconducibile alle gestioni di portafoglio. Il restante 49%, invece, è investito in fondi comuni e Sicav.
Si torna così al periodo nero del 2008, quando le rilevazioni di Assogestioni, allora sui soli fondi, avevano segnalato a gennaio un record negativo di -19 miliardi, seguito per alcuni mesi da deflussi intorno agli 8 miliardi. Entrando più nel dettaglio, la flessione della raccolta per le sole gestioni di portafoglio, tra retail e istituzionali, è stata pari a 1,3 miliardi, mentre per le gestioni collettive, quindi fondi aperti e fondi chiusi, i deflussi si sono attestati a 4,7 miliardi. In particolare, guardando alle singole categorie di fondi (tutte dominate dal segno meno), settembre è stato fortemente negativo per gli azionari (-1,14 miliardi), per i prodotti obbligazionari (-1,36 miliardi) e per i fondi monetari (-1,03 miliardi). Più contenuto, invece, il calo di raccolta dei prodotti bilanciati, con un -360 milioni, e degli strumenti catalogati come flessibili, che hanno visto i riscatti superare le nuove sottoscrizioni per 761 milioni. Infine, continua il periodo dell’industria degli hedge fund, che anche questo mese ha chiuso con un bilancio negativo, bruciando altri 133 milioni. Il patrimonio alternativo si è così contratto ulteriormente, attestandosi poco sopra la soglia dei 10 miliardi. Nello spaccato per singola società di gestione, invece, spicca il rosso di Pioneer Investment, che da sola ha accusato deflussi per 2 miliardi, ovvero un terzo del sistema. In particolare, a pesare sul risultato di raccolta è stato soprattutto il comparto dei fondi aperti, in negativo per 1,45 miliardi, mentre le gestioni di portafoglio retail e quelle istituzionali hanno visto deflussi rispettivamente per 307 milioni e 245 milioni. La società di gestione del gruppo Unicredit è risultata essere la peggiore del mese seguita da Ubi Banca e Bnp Paribas, con riscatti per circa 650 milioni ciascuna. Il gruppo Eurizon di Intesa Sanpaolo, invece, che rappresenta il primo operatore del settore con una quota di mercato del 23,6% (il patrimonio complessivo ammonta a 214,3 miliardi), ha chiuso settembre con un salo negativo di 32 milioni.
Guardando, poi, alla segmentazione del mercato per tipologia giuridica di prodotto, alla fine del periodo di rilevazione, dei 424 miliardi in pancia ai soli fondi aperti, il 61% circa (261 miliardi) era investito in fondi di diritto estero e il restante 39% (163 miliardi) in strumenti di diritto italiano. Dunque, nonostante la recente riforma fiscale dei fondi, che ha introdotto un meccanismo di tassazione sul realizzato al fine di rendere maggiormente competitiva in Europa l’industria tricolore, l’Italia non accenna a dare segnali di ripresa. E i numeri continuano a dipingere un quadro sempre più allarmate. Basti pensare che da inizio anno, i prodotti di casa hanno subìto riscatti per oltre 20 miliardi di euro (nello stesso periodo di riferimento, invece, gli strumenti di diritto estero, compresi i fondi riconducibili a intermediari italiani, sono in positivo per 7 miliardi). Una voragine che man mano che si va indietro nel tempo diventa sempre più grande. Nel 2003, gli asset in mano ai fund manager italiani erano 380 miliardi. Oggi, invece, se ne contano soltanto 163 miliardi. Dati che evidenziano un trend in atto ormai da anni, con i gestori tricolori impegnati in un processo di migrazione delle masse verso lidi come il Lussemburgo e l’Irlanda. L’idea di base degli asset manager è abbandonare le posizioni marginali, come l’Italia appunto, e diventare più internazionali. I più attivi da questo punto di vista sono Banca Generali, che di recente ha pensato bene di cedere completamente il business (ormai ridotto all’osso) dei fondi di diritto italiano di Bg Sgr, e Azimut che, al di là dello spostamento di capitali, continua a stringere accordi oltre confine, tra Svizzera, Turchia e Cina (nel piani dichiarati dalla Sgr fondata e guidata da Pietro Giuliani c’è anche un futuro ingresso in suolo americano).
Che l’Italia sia destinata a diventare un semplice Paese di distributori? È ancora presto per dirlo, ma la strada che è stata presa sembra essere proprio questa.