di Francesca Vercesi

La vita media si sta allungando, si sa. Ma la longevità può costituire un rischio, sia per l’individuo, che deve garantirsi delle entrate sufficienti per poter affrontare con serenità gli anni da vivere, sia per le istituzioni coinvolte. Dato che, se la vita dell’individuo risulta più lunga di quella attesa al momento in cui sono stati pagati i contributi, le istituzioni coinvolte (compagnie di assicurazione, banche) che offrono i piani pensionistici finiscono per essere soggetti a quello che è meglio conosciuto come longevity risk. La probabilità di morire entro un anno dopo i 65 anni si è ridotta per tutta la popolazione negli ultimi 40 anni. Ma questa riduzione non è avvenuta in maniera uniforme. I dati per il Regno Unito ci dicono che i miglioramenti nella mortalità a età avanzata sono stati più drastici di quelli per gli individui tra i 65 e i 70 anni. Il fatto, insomma, che il 33% piuttosto che il 25% dei 65enni sia in vita a 90 anni «espone le istituzioni che pagano rendite vitalizie a un rischio notevole», spiega Carlo Favero, a capo della cattedra di asset pricing e quantitative finance presso l’Università Bocconi di Milano (di cui per un triennio Deutsche bank è diventato partner strategico). Eppure gli italiani nella previdenza complementare non credono ancora, considerando che ad aderire è solo il 24%. «Una proposta è quella di creare un mercato proprio per i longevity bond, ovvero obbligazioni indicizzate alla longevità», precisa Favero. Si tratta di titoli sottoscritti da chi deve erogare rendite pensionistiche, in primis fondi pensione, pagano una cedola indicizzata alla mortalità. Un esempio? Un longevity bond emesso nel 2012 indicizzato alla mortalità dei 65enni nel 2012 paga una cedola proporzionale alla mortalità effettivamente osservata dal 2012 in poi di coloro che nel 2012 hanno 65 anni. Ovviamente se i 65enni hanno una sopravvivenza superiore alle aspettative nel 2012 la cedola risulta essere più elevata di quella attesa nel 2012. Questo meccanismo permette all’acquirente di longevity bond di avere nel suo portafoglio uno strumento di diversificazione del rischio di longevità. «Ma la questione spinosa legata ai longevity bond è su quale istituzione sia la più indicata per emetterli. Alcuni sostengono che questi siano uno strumento per risolvere un fallimento del mercato generato dal fatto che le generazioni future sono per loro natura escluse dai mercati delle assicurazioni. In questo contesto il benessere della collettività migliora con un intervento del governo perché il potere di tassazione consente ai governi di fare redistribuzione e questo indicherebbe il governo come l’emittente naturale di longevity bond. Ma la questione è dibattuta: non è ovvio che i governi redistribuiscano tra le generazioni in maniera ottimale perché le generazioni contemporanee votano e quelle future no, la seconda è che l’emissione di longevity bond aumenterebbe l’esposizione dei governi al rischio di longevità», conclude il docente. Una soluzione, poi, potrebbe essere l’intermediazione del rischio. Le banche potrebbero fare da intermediari offrendo soluzioni finanziarie a compagnie e a fondi pensione, per proteggersi dal rischio, con strumenti come gli swap. (riproduzione riservata)