Ormai la frase sussurrata nelle sale operative e nelle stanze ovattate delle banche d’affari è diventata, grazie anche al coming out delle massime autorità economiche, una verità condivisa: le banche sono il vero malato d’Europa. Mentre i fattori di rischio – default di Atene, crisi dei debiti sovrani degli altri Piigs, requisiti di Basilea III, stretta alla liquidità – assumono contorni più concreti, il tessuto del sistema finanziario europeo ha messo in evidenza le proprie smagliature.
Nei giorni scorsi il crollo della franco-belga Dexia, già salvata con denaro pubblico nel 2008 ma tuttora alle prese con forti problemi strutturali, ha scoperchiato il calderone sui problemi del settore. «Senza ombra di dubbio, le banche europee hanno bisogno di ricapitalizzare per affrontare lo scenario che si profila nei prossimi mesi», commenta a B&F Pier Alberto Furno, ceo di Nemesis Am, avvertendo comunque che «le ricapitalizzazioni non risolveranno comunque la crisi di liquidità». Secondo Morgan Stanley, gli istituti del Vecchio Continente avrebbero bisogno di un EuroTarp che li finanziasse per 200 miliardi di euro. Anche perché gli interventi della Bce, secondo la banca d’affari Usa, sono palliativi che non eliminano il rischio sistemico e nei prossimi anni i bilanci dei finanziari d’Europa tenderanno a peggiorare ancora. In una mappa del rischio del settore andrebbe segnalata con evidenza la curva pericolosa rappresentata dai colossi francesi (fortemente esposti ai bond greci e alle prese con difficoltà di finanziamento) ma anche il pericolo rappresentato dalle Landesbanken tedesche. E, ovviamente, i gruppi creditizi italiani, da settimane sorvegliati speciali del mercato per la consistente esposizione al debito sovrano del Paese: basti pensare che a settembre il sostegno economico della Bce alle nostre banche è salito a 105 miliardi di euro, dagli 85 di agosto.

LA MAPPA DEL RISCHIO. «Ci sono tre variabili su cui si muovono le valutazioni del settore in questo momento – spiega Antonio Guglielmi, responsabile della ricerca Equity di Mediobanca e capo del team di ricerca bancaria europea – il debito sovrano, la parte regolamentare (requisiti di Basilea III e costo del funding) e lo scenario macro. Questi tre aspetti comportano per le banche europee a maggiore capitalizzazione un rischio di perdita del 30% del tangible equity». In questo scenario: «Il Crédit Agricole rischia di perdere più del 60% del tangible equity, le banche britanniche sono messe meglio con una potenziale perdita del 15-20%; nel mezzo ci sono le italiane col rischio di perdere il 20-30%». L’esperto spiega che sul fronte dell’esposizione al debito sovrano, le più a rischio sono le banche francesi, seguite dalle tedesche; sul fronte regolamentare la classifica delle debolezze vede ancora una volta in testa Francia e Germania, seguite dall’Italia; sotto il profilo macro invece, in uno scenario recessivo, a rischiare sono prima di tutto gli istituti di Italia e Spagna, tallonati da quelli di Francia e Germania.

ALLONS BANQUES DE LA PATRIE. Le francesi e le tedesche sono dunque tra le più a rischio secondo gli esperti interpellati, ed è a causa della Grecia. «Non è però l’esposizione al debito ellenico a far paura – dice a B&F Massimo Biglia, gestore del fondo Plurima Frame Alpha Strategy – Mettiamo il caso di SocGen, un haircut del 50% provocherebbe perdite di un miliardo, che l’istituto è in grado di assorbire». Il vero problema è semmai il rischio indiretto, legato a un default delle banche greche. «Questo perché le banche europee – prosegue Biglia – hanno prestato soldi a tutte, per una cifra che nessuno è in grado di valutare, e che potrebbe essere insostenibile». A rischio sono soprattutto «Crédit Agricole e SocGen – spiega Steve Hussey di AllianceBernstein – che hanno filiali greche e potrebbero subire un forte impatto sugli utili». Le francesi, oltre ad avere effettuato acquisti massicci di obbligazioni greche, hanno fatto una forte attività di lending nel Paese. «Soprattutto SocGen e Crédit Agricole subirebbero, in caso di fallimento, un impatto diretto – sostiene Enrico Danieletto, ad di Pairstech Capital Management – Ma chiaramente un peggioramento della condizione greca pone in modo indiretto sotto pressione anche le banche di altri Paesi periferici (Italia, Spagna, Portogallo) che fisiologicamente possiedono nei loro banking e trading book molti titoli nazionali. Credo che un impatto greco meno marcato possa invece esserci per alcune banche inglesi (Standard Chartered, Hsbc)  la cui esposizione in obbligazioni governative sui titoli periferici è in termini  percentuali meno alta».
Di parere diverso, Exane. «Société Générale ci appare sana – afferma Guillaume Tiberghien, analista di Exane Bnp Paribas – e dunque la reazione del mercato appare eccessiva sebbene sia vero che la banca debba continuare a focalizzarsi ancora sul deleverage. Va evidenziato che il gruppo è riuscito a ridurre l’esposizione nel banking book ai debiti sovrani. Anche Natixis continua a beneficiare di un basso profilo di rischio: bassa esposizione al debito sovrano, ristrutturazione nel ramo Cib, miglioramento della solvibilità. E stessa considerazione può essere fatta per Crédit Agricole, la francese maggiormente capitalizzata».
UNICREDIT E LE ALTRE. Nella variabile del rischio sovrano non si può certo trascurare l’impatto di un’ulteriore pressione sui titoli di Stato. Anche in caso di svalutazione dei Btp sarebbero dolori per le banche europee, visto che al sicuro sarebbero solo le banche svizzere, mentre Intesa Sanpaolo, che ha un rapporto Btp/mezzi propri al 40%, rischierebbe grosso, così come anche Unicredit e Mps.
«In Italia, se guardiamo al rapporto tra impieghi e depositi – sottolinea Guglielmi di Mediobanca – vediamo che il nostro è modello da premiare rispetto a quello di banca universale franco-tedesco che ha messo in luce tutti i suoi punti deboli; d’altro canto – ammonisce Guglielmi – la chiave per valutare la solidità complessiva del sistema è il costo al quale le banche possono rifinanziarsi sul mercato e si tratta di un elemento penalizzante per le italiane, costrette ad affrontare un costo maggiore rispetto alle concorrenti europee a causa dell’esposizione al debito italiano». Un paradosso efficacemente sintetizzato dal caso di Intesa Sanpaolo, il cui business poggia su un forte contributo dei depositi alle attività (a differenza per esempio di SocGen, molto dipendente dall’approvvigionamento a breve sul mercato): «una delle banche migliori d’Europa – afferma l’analista di Mediobanca – se non la migliore, a livello di bilancio, che potrebbe resistere bene anche a fattori negativi come default di Atene, Basilea III, crisi del funding». Ma pagherebbe care le conseguenze di un default italiano. «Anche se nel corso dello scorso anno le banche italiane, tutte a eccezione di Unicredit hanno migliorato la loro patrimonializzazione – dice Hussey – e dovranno fare altre mosse per avere un cuscinetto più ampio per affrontare i rischi, in particolare l’impatto di un rallentamento economico». Eppure, le attuali preoccupazioni degli investitori sugli istituti tricolori per alcuni sono eccessive. «Le banche – commenta Andrea Vercellone di Bnp Paribas – per scopi di liquidità devono necessariamente detenere obbligazioni governativ
e. Ma la maggiore esposizione sovrana delle italiane è interna, mentre l’esposizione agli altri Piigs rappresenta in media solamente il 3,2% dell’equity tangible». Le attuali tensioni sul mercato interbancario non rappresentano, dunque, una minaccia immediata per la stabilità del sistema bancario italiano. «Mediamente, le banche italiane vantano un Basilea 3 Full Loaded Coer Tier 1 Capital ratio – continua Vercellone – atteso per il 2013 pari a 8,8% al netto dei dividendi pagati nei prossimi tre anni». Andando nel dettaglio, ovviamente, le differenze sono sensibili. «Unicredit e Banco Popolare – prosegue Vercellone – non hanno ancora raggiunto la capitalizzazione ottimale. Per quanto riguarda Unicredit, nel nostro scenario centrale riteniamo possibile un aumento di capitale, di 5 miliardi di euro, entro fine anno dato che i ratio sono bassi rispetto ai peers». Banco Popolare ha invece compiuto un passo interessante nella giusta direzione annunciando la fusione della rete della banca nella casa madre. «Secondo il management – spiega l’analista di Exane – la riorganizzazione aumenterà il reddito netto di 44 milioni di euro nel 2013 (90 milioni entro il 2016) grazie ai minori costi di gestione e alla minore tassazione. Riteniamo improbabile ulteriori aumenti di capitale dopo i 2 miliardi di inizio anno, ma il gruppo può rafforzare i ratio di solvibilità in modo organico chiedendo la conversione della convertibile emessa o attraverso la dismissione di asset, tra cui la partecipazione del 20% in Agos».

E le banche italiane hanno anche un’ulteriore capacità che le avvantaggia. «Quella – spiega Caspar van Grafhorst, senior credit analyst di Ing Im – di collocare i propri bond sul canale retail. Il problema delle banche italiane è invece il basso livello di redditività, in un mercato con bassi tassi di interesse. In un contesto in peggioramento, le piccole realtà sono più vulnerabili. L’Italia, inoltre, ha bisogno di implementare riforme strutturali per migliorare la sostenibilità del debito e guadagnare la fiducia degli investitori».  
Ma alla fine, vale la pena di investire sulle banche italiane? «Per un investitore speculativo che crede che l’Italia non avrà problemi – dice Biglia – il potenziale di rialzo è molto elevato». Anche perché ai prezzi attuali si tratta di acquisti a sconto. «Decidere se le valutazioni attuali siano interessanti dipende principalmente dalla considerazione che un potenziale default della Grecia abbia o meno effetti per altri Stati. Ad esempio, la probabilità implicita di un default di Royal Bank of Scotland, basata sugli spread dei Cds, è del 30%, per Bnp del 22% per Abn del 20% e per Santander è del 25%. A vedere questi numeri, sembrerebbe che le valutazioni abbiano ampiamente prezzato questa evenienza».