Ora vanno contrastati con le armi 

 di Piero Laporta prlprt@gmail.com  

Oltre trenta navi e più di 500 marittimi sono oggi preda d’una quantità indefinibile e numerosa di ciurme di pirati somali. Tra i malcapitati, anche gli italiani della petroliera Savina Caylyn e della motonave Rosalia D’Amato, il cui futuro è alquanto incerto.

La pirateria è stata sottovalutata, da tutti i paesi; dall’Italia non meno degli altri.

Questo ha pure, come vedremo, incattivito le tecniche predatorie. La lunga lista di navi catturare dagli inizi del 2000 e quella ancora più lunga di navi assalite certificano un’attività organizzata, che muove 240 milioni di dollari, denaro contante inserito da mani misteriose nei circuiti finanziari occidentali, ben lontani dalle rotte predatorie.

Il successo della pirateria somala sulla costa orientale africana, ha rinfocolato la pirateria nigeriana sulla costa occidentale. I pirati nigeriani nascono negli anni ’70, quindi ben prima di quelli somali, la cui attività, esplosa negli ultimi anni, s’originò a metà degli anni ’90, quando, imitando i nigeriani, i somali assalivano le navi, predando tutto quello c’era a bordo fra denaro, materiali pregiati e gasolio, lasciando andare la nave e l’equipaggio senza ulteriori conseguenze.

L’impunità pluriennale ha evidentemente indotto i somali, dai primi anni del 2000, ad allargare il giro d’affari con la cattura delle navi e degli equipaggi, restituiti alla libertà solo dopo un congruo riscatto. I pirati nigeriani, che usualmente non chiedevano riscatti, negli ultimi tempi seguono l’esempio dei somali, gli uni e gli altri facendo conto sulla malleabilità dei paesi di bandiera. L’evoluzione degli obiettivi ha lasciato invariate le tecniche di assalto, rudimentali ma efficaci. Le navi mercantili, a dispetto della maestosità, sono molto vulnerabili, specialmente se a pieno carico (proprio per questo, più gradite ai pirati) quando l’altezza del bordo rispetto al mare è fra i cinque e i sette metri, cioè facilmente superabile con scale d’alluminio e rampini.

Una nave madre, sovente una nave predata in precedenza oppure un peschereccio noleggiato allo scopo, si portano davanti al mercantile in navigazione, mettendo in acqua due barchini, uniti da una grossa e opportunamente lunga fune. Così attendono la preda nell’oscurità della notte.

Quando il mercantile ingaggia la fune col bulbo di prua, è lo stesso movimento della nave che porta di due barchini ad accostarsi alle due fiancate; dopo di che scale, rampini, cesoie per tagliare il filo spinato messo a protezione dei ponti, e il gioco è fatto.

Moltissime navi sfuggono a queste trappole, grazie ai radar e alle abili manovre di disimpegno del comandante. La quantità enorme delle prede rende tuttavia remunerativa la caccia. Basti pensare che ogni anno transitano per Suez 22mila navi, che necessariamente bordeggiano la Somalia e quindi incappano nella fune stesa in mare per agguantarli.

L’unica soluzione è la pronta reazione da bordo o, come si è detto, manovrando oppure sparando con le armi o coi cannoni d’acqua, per intenderci fanno i giapponesi contro dei barchini di Green Peace alle baleniere. Tutto ciò spiega perché Paolo d’Amico, presidente di Confitarma, la confederazione degli armatori navali italiani, ha sottoscritto una convenzione col ministero della difesa per imbarcare una pattuglia di militari (a spese dell’armatore, circa 500 euro al giorno).

Il ministero dell’Interno sta approntando un altro decreto, in concerto con la Difesa e con il dicastero delle Infrastrutture (competente sulla marina mercantile) per consentire agli armatori, in un futuro speriamo prossimo, di imbarcare dei contractors con armi da guerra. È auspicabile, in questa fase transitoria, che la burocrazia ministeriale non si riveli più micidiale dei pirati.