L’addio al lavoro a 67 anni nel 2026 è già una realtà per chi si è avviato tardi all’attività lavorativa. Ma la vera ingiustizia resta il mix retributivo anzianità che finisce per addebitare alla collettività metà dell’assegno ai privati e ancor di più per gli autonomi 

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Nella lettera presentata da Silvio Berlusconi alla Commissione europea mercoledì 26 il governo italiano prevede che nel 2026 si possa andare in pensione di vecchiaia con almeno 67 anni di età. Ma questo è un obiettivo che non richiede nessuna riforma all’attuale sistema previdenziale perché gli italiani andranno già in pensione di vecchiaia con oltre 67 anni nel 2026, come conseguenza delle riforme messe in atto negli ultimi anni.

Come dimostra l’analisi di Progetica pubblicata in queste pagine. Un lavoratore dipendente nato nel 1959 che abbia iniziato a lavorare a 31 anni andrà in pensione nel 2026 a 67 anni compiuti. Poco diversa la situazione per le donne. Una dipendente nata nel 1959, che ha iniziato a contribuire a 31 anni, dirà addio al lavoro a 66,7 anni sempre nel 2026. Peraltro per gli uomini questo obiettivo si raggiunge già dal 2020: un uomo nato nel 1954 che ha iniziato a lavorare a 31 anni andrà in pensione a 67 anni. Infatti la misura della finestra unica di uscita, che allunga di 12 mesi (18 per i lavoratori autonomi) il momento del buen retiro e l’agganciamento dell’età pensionabile alla speranza di vita certificata dall’Istat, misure introdotte senza alcun clamore nel 2010, hanno spostato di molto l’appuntamento con la vecchiaia. Mentre ancora una volta restano fuori i lavoratori che possono contare su 40 anni di contributi, che hanno diritto alla pensione indipendentemente dall’età.

Questi ultimi devono solo fare i conti con un aggravio della finestra di un mese nel 2012, due dal 2013 e tre dal 2014. Un caso a parte riguarda le pensioni di anzianità calcolate con il sistema delle quote, ossia il regime introdotto dalla riforma Damiano del 2007 che permette di andare in pensione con 35 anni di contributi e un’età minima di 60 anni (le stesse regole valgono anche per i lavoratori autonomi, ma per costoro le quote sono aumentate di un anno, rispetto a quelli previsti per i dipendenti). Questi ultimi per fare domanda per la pensione nel biennio 2011-2012 devono raggiungere quota 96, ossia aver almeno compiuto i 60 anni di età e aver versato contributi per 36 anni. Ovviamente al salire dell’età, gli anni di contribuzione possono diminuire, ma la somma deve sempre fare almeno 96. E dal 2013 dovrà essere 97, il che significa che per lasciare il lavoro bisognerà aver compiuto 61 anni, senza considerare l’aggiornamento Istat della speranza di vita che, ad esempio, nel 2025 potrà ritardare l’appuntamento con la pensione di 19 mesi e nel 2047 di quasi quattro anni. Quest’ultimo intervento farà sì che gradualmente ci sarà un numero crescente di lavoratori che arrivano ai 40 anni di contributi o alle quote prima che scatti la vecchiaia. Il criterio dell’anzianità, un’anomalia rispetto a quanto è previsto negli altri Paesi europei, continuerà a essere quindi la via più battuta dai lavoratori per andare in pensione. E questo creerà una distorsione almeno finché non entrerà a regime il contributivo nel 2030.

Con il contributivo infatti il lavoratore ottiene solo quanto avrà accumulato nel corso della vita, quindi la data d’uscita non incide sui conti dell’Inps, ma solo sul suo assegno (che, se lascia prima, sarà più magro). Fino a quel momento le uscite anticipate costano e non poco. Il sistema retributivo oggi prevalente non scomparirà del tutto prima del 2050 (quando l’intero stock di pensioni in pagamento sarà contributivo). Esso non collega l’ammontare dei contributi versati alla pensione che si percepirà. L’assegno che si ottiene è ben maggiore rispetto a quanto versato durante la vita lavorativa, a differenza del sistema contributivo. Proprio il centro di ricerca Cerp ha stimato l’entità di questa generosità del retributivo attraverso l’indicatore Pvr (present value ratio) che rappresenta il rapporto tra il valore attuale delle pensioni che il lavoratore riceverà da pensionato e il montante dei contributi da lui versati durante la sua carriera, entrambi valutati al momento del pensionamento. Un valore di 100 indica che c’è corrispondenza tra contributi versati e pensione ricevuta. Se il dato è superiore, invece, l’assegno previdenziale è superiore ai versamenti effettuati. Non stupisce quindi che dalle simulazioni del Cerp emerge che nel regime retributivo in vigore prima del 1992 il Pvr è superiore a 100. Ma ciò che desta preoccupazione è l’entità del Pvr per le generazioni che andranno ancora per diversi anni in pensione con il metodo retributivo. Per i lavoratori dipendenti il Pvr è di 162, per le lavoratrici raggiunge 188. Ciò vuol dire, in questo ultimo caso che quasi la metà dell’assegno previdenziale è in realtà un regalo alla pensionata a carico della collettività. Per non parlare dei lavoratori pubblici dove il Pvr è superiore a 200 e addirittura nel caso di artigiani e commercianti l’indicatore supera 350.

 

L’importo di questo regalo che il sistema previdenziale fa ai lavoratori del retributivo dipende dal tipo di carriera e in misura maggiore dall’età di pensionamento. Prima ci si ritira dal lavoro, maggiore è la quota di pensione non coperta dai contributi versati. Ad esempio il Pvr per un lavoratore che va in pensione a 57 anni viene stimato da Cerp in 170, mentre a 60 anni si abbassa a 150. La situazione è equilibrata invece se si fa riferimento ai lavoratori del contributivo, ovvero, quelli assunti dal 1996 e che oggi sono ancora molto lontani dalla pensione. Qui il Pvr è in tutti i casi attorno a quota 100. Emerge quindi una forte disparità di trattamento tra i pensionati del retributivo, ovvero quelli di oggi, e i giovani che devono pagare ricche pensioni oggi ai propri padri. Un’ingiustizia sociale che da più parti si chiede di porre rimedio. Le vie d’uscita? L’abolizione della pensione di anzianità o il passaggio immediato dal sistema retributivo al contributivo, come ha spiegato a MF-Milano Finanza il ministro della gioventù Giorgia Meloni. «Se non si possono proprio cancellare le pensioni d’anzianità, almeno bisogna passarle tutte al sistema contributivo. Qui non c’è nessuno che vuole affamare i pensionati, ma mi sembra giusto che se qualcuno vuole andare in pensione prima del tempo, ci vada almeno con le stesse regole con le quali ci andrà la mia generazione».

Il tema delle pensioni di anzianità è stato solo parzialmente riformato con l’introduzione del meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita Istat e con l’introduzione delle finestre mobili di attesa di 12 o 18 mesi (dipendenti e autonomi) per percepire la pensione dal momento in cui si maturano i requisiti. Ma si tratta di interventi che non risolvono il problema delle pensioni di anzianità percepite con 40 anni di contributi da chi oggi ha 58 o 59 anni. L’allungamento delle vita media fa sì che a questi lavoratori oggi si debbano pagare pensioni anche per 30 anni. Secondo gli ultimi dati Inps nel 2010 su 180 mila pensioni di anzianità liquidate 125 mila sono state di questo tipo. Le altre 55 mila si riferiscono a lavoratori con meno di 40 anni di versamenti e che hanno lasciato l’impiego con il sistema delle quote.

Nel futuro prossimo, insomma, i lavoratori potranno andare in pensione non solo con ricche pensioni pari al 70-80% dell’ultimo stipendio, ma ancora relativamente presto. Ed è giusto che tutti lo sappiano. Come sottolineano anche gli economisti del Cerp Elsa Fornero e Flavia Coda Moscarola in un recente paper sulle proposte di forma delle pensioni, in cui propongono di passare al contributivo pro quota già dal 2012: «È essenziale che l’Inps (e gli altri enti previdenziali) inviino rendiconti periodici ai cittadini in cui siano riportati la quota di pensione giustificata, in base a criteri di equità attuariale, dalla contribuzione previdenziale effettuata lungo la vita lavorativa e la quota eccedente tale misura. Quest’ultima parte evidenzia quello che può essere considerato il contributo della collettività (incluse le generazioni future) alla loro pensione».

 

Sempre riguardo all’informazione, continua a non arrivare ai lavoratori la cosiddetta busta arancione, ossia una lettera, sul modello di quella che il governo svedese invia ai lavoratori, dove sono riferite ai contribuenti le stime di quando e quanto potranno sperare di incassare di pensione in base a diversi scenari. Uno strumento che consentirebbe ai lavoratori di pianificare un programma di risparmio per integrare il futuro assegno, che potrà coprire tra il 50 e il 75% dell’ultimo stipendio a seconda di scenari più o meno ottimistici. (riproduzione riservata)