di Carlo Giuro

 

Il sistema previdenziale del futuro deve fronteggiare sempre più il rischio longevità per cui già oggi deve prepararsi per gestire anche la probabilità che il lavoratore sopravviva al proprio reddito.

 

Risparmiatori ottimisti. È interessante anche esplorare quale sia la percezione degli italiani alla luce della recente ricerca presentata nell’ambito dell’annuale appuntamento di Italian Axa forum.

La longevità è un’aspirazione condivisa dalla maggioranza del campione (62,6%), ma la qualità della vita ne diviene il fattore fondamentale e il principale metro di giudizio: per il 25,2% degli intervistati, raggiungere la fase della lunga vita non significa infatti invecchiare veramente perché i progressi della qualità della vita e della medicina permettono di restare giovani molto più a lungo. D’altra parte si registra una scarsa consapevolezza e maturità sul tema, che si concretizza nella tendenza a spostare progressivamente in avanti l’inizio di tutte le fasi della vita, quello che qualche demografo definisce come sindrome del ritardo.

Gli italiani mediamente pensano che si diventi adulti a 33,4 anni; addirittura un italiano su 4 colloca l’ingresso nell’età adulta tra i 40 e i 50 anni. Allo stesso modo, mediamente si ritiene che l’anzianità inizi a 66,3 anni e che si diventi grandi anziani a 80,3 anni. In dettaglio, permangono forti resistenze, più o meno consapevoli, a riconoscersi anziani, se è vero che quasi il 90% degli intervistati dichiara di sentirsi più giovane della propria età anagrafica.

 

Imprevisti personali. Dal punto di vista strettamente tecnico il longevity risk può definirsi come il rischio che mortalità futura e aspettative di vita siano diverse da quelle previste. Diventa cioè un fondamentale fattore con cui devono fare i conti sia i pilastri pensionistici pubblici che quelli privati in considerazione della non esatta prevedibilità dell’aspettativa di vita. Chi offre rendite (assicurazioni, i fondi pensione, enti previdenziali pubblici) deve affrontare quindi il rischio che il valore attuale netto del flusso di pagamenti per la rendite sia maggiore di quello atteso, considerando l’incertezza della durata della vita.

La longevità può essere considerata poi nelle sue duplici componenti, il longevity risk individuale e collettivo da un lato e rischio specifico e rischio aggregato dall’altro. Il longevity risk individuale sorge perché l’aspettativa di vita individuale differisce da persona a persona. Tale rischio è affrontabile tramite il risk pooling realizzato dai soggetti che erogano rendite. Vero problema deriva poi dal rischio aggregato, cioè l’incertezza circa l’aspettativa di vita di un’intera generazione.

 

Le possibili vie. Dal punto di vista del lavoratore va osservato come nel primo pilastro, trattandosi di un sistema di capitalizzazione virtuale, il trasferimento del rischio longevità è determinato dalla revisione dei coefficienti di trasformazione. Nella previdenza integrativa l’incremento dell’aspettativa di vita impatta anche sulla conversione del montante accumulato nel fondo pensione. Le principali conseguenze sui soggetti erogatori di rendita sono rappresentate dalla estensione del periodo di pagamento della rendita e dall’incremento della passività attuariali per effetto della diminuzione delle probabilità di morte.

Quali sono allora, nel contesto previdenziale italiano, gli operatori che possono soffrire il longevity risk? Il riferimento particolare è alle casse di previdenza, ai fondi pensione a prestazione definita, ai fondi pensione che erogano direttamente la rendita. Ma va valutato con molta attenzione anche il ruolo dei fondi pensione a contribuzione definita che, pur delegando l’erogazione della rendita con una specifica convenzione alle compagnie, rappresentano comunque il riferimento fiduciario nei confronti degli iscritti. Quali sono le vie percorse fino ad ora dalla previdenza integrativa? Vi è una premessa sistemica in primo luogo, dal momento che vi è un generale spostamento internazionale dagli schemi di previdenza integrativa a prestazione definita a quelli a contribuzione definita. Da una Ricerca Netspar si evidenziava infatti che i fondi pensione a prestazione definita a capitalizzazione richiedono un surplus del 4,5% per coprire il longevity risk su un orizzonte di cinque anni.

Va evidenziato che in Italia i fondi pensione a prestazione definita sono ormai casi limitati ad alcuni preesistenti. Le considerazioni fin qui percorse sono state quelle attuariali del ricorso al bilancio tecnico e della modifica delle caratteristiche peculiari della rendita. In particolare i trend decrescenti della mortalità impongono l’adozione di tavole proiettate di mortalità per calcolare i valori attuariali delle rendite. Poiché oggi il mercato italiano è ancora in fase embrionale per l’erogazione delle rendite è però necessario volgere lo sguardo anche in ottica prospettica a quanto accade all’estero.

Il riferimento puntuale è alla cartolarizzazione del longevity risk, in un processo che consiste nell’isolare i flussi di cassa generati dalla longevità e nel ricomporli in derivati scambiati sui mercati dei capitali. Altra possibile via è quella del mercato della riassicurazione. (riproduzione riservata)