di Giuliano Cazzola* *L’Occidentale  

Contrordine, compagni! Le pensioni dei giovani non sono più in pericolo. Non occorrerà, allora, tenere nascosto ai collaboratori il loro incerto destino da pensionati allo scopo di evitare una «rivolta sociale», come ebbe a dire, incautamente a suo tempo, il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua.

Secondo uno studio che Stefano Patriarca – già «sherpa» (ovvero tecnico a supporto dei negoziatori «politici») per la Cgil durante il varo della riforma Dini del 1995 – ha presentato, per conto dell’Inps, il sistema contributivo (che vale per quanti hanno cominciato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996) non è quella specie di ammazzasette che raccontano, nei talk show televisivi, i conduttori-mozzorecchi, impegnati a denigrare l’Italia, soltanto per fare la guerra a Silvio Berlusconi, ma è un modello di pensionamento in grado di assicurare, non solo la sostenibilità finanziaria di lungo periodo, ma anche l’adeguatezza dei trattamenti riservati alle future generazioni.

Ad aggiustare i limiti di quella riforma strutturale del 1995, che è alla base del nostro sistema pensionistico, oltre alle modifiche apportate in tutti gli anni che ci separano da quell’evento, un contributo positivo arriverà dalle misure adottate nell’attuale legislatura da parte del governo Berlusconi, benché bistrattato e strattonato dai Della Valle di turno per il suo scarso appeal riformatore. La ricerca di Patriarca dimostra, infatti, che l’elevazione graduale dell’età pensionabile non è solo coerente con il prolungamento delle attese di vita (grazie all’aggancio automatico tra il requisito anagrafico e la dinamica demografica), ma determinerà anche la «tenuta» sul piano sociale delle prestazioni.

Nel 2046, ad esempio, un lavoratore dipendente che abbia iniziato la sua attività a 29 anni, lavorando 40 anni (e quindi ritirandosi a 69 anni, come sarà normale, visto che gli resteranno da vivere almeno altri vent’anni) andrà in quiescenza – udite, udite ! – con una pensione netta pari al 78% della retribuzione netta. Se avrà lavorato solo 35 anni riceverà un assegno pari al 70%. Se ad un lavoratore toccassero in sorte 4 anni di disoccupazione il suo trattamento, alla data considerata, sarebbe pari al 66%.

Diverso il caso di un collaboratore a progetto, iscritto alla gestione separata presso l’Inps: ammesso e non concesso che una persona rimanga per tutta la vita in tale condizione professionale, come nella realtà non accade quasi mai, essa dovrà accontentarsi (a 69 anni di età con 35 di contributi) di un tasso di sostituzione del 57% (appena tre punti in meno di quanto il governo Prodi e i sindacati avevano garantito, sulla carta, ai giovani, nel Protocollo sul welfare del 2007). Lo studio, pubblicato sul sito dell’Inps, ipotizza una serie molto ampia di casi tutti rivolti a sfatare tanti luoghi comuni del nostro dibattito. È tutto risolto, allora? Guai a commettere l’errore opposto a quello dei tanti disfattisti di casa nostra. La chiave di volta del problema non sta nel calcolo contributivo. La pensione non è altro che lo specchio della vita lavorativa. Se la storia professionale di un lavoratore è caratterizzata da discontinuità, periodi di inattività, retribuzioni ridotte o irregolari, anche il suo trattamento pensionistico ne risentirà. E questa, purtroppo, è una condizione molto diffusa tra le giovani generazioni. È quindi la difficile occupabilità (non gli effetti delle norme previdenziali vigenti) a determinare una situazione, anch’essa critica, da pensionati. In una certa misura, poi, la precarietà non è un’invenzione dei nostri tempi. Non a caso, oggi vi sono quattro milioni di pensioni integrate al minimo.

Lo studio di Stefano Patriarca, comunque, un merito lo ha. Oltre a rendere giustizia al sistema contributivo, vuole ricordare a noi tutti (e ai manipolatori dell’opinione pubblica, in particolare) che la pensione non può svolgere il ruolo del «vendicatore mascherato» dei torti, veri o presunti, che un lavoratore ha subito durante la vita lavorativa. Su La7, in una rubrica di nuovo conio (L’aria che tira) hanno esibito una simpatica signora che denuncia una pensione di 950 euro mensili netti. L’approccio è singolare: Mirta Merlino, la conduttrice, domanda se è possibile vivere con quella somma. Né lei né gli autori si sono interrogati sui motivi di una pensione di quell’importo e soprattutto nessuno di loro si è posto il quesito dirimente: se uno stipendio è pari a 1200-1300 euro mensili, è normale che la pensione arrivi intorno ai mille euro (in base ai contributi versati, all’anzianità lavorativa e alle regole di calcolo). Esiste forse, in qualche angolo sperduto del pianeta, un Paese in cui la pensione viene corrisposta in base alle esigenze e alle aspettative ?