Pechino ha enormemente gonfiato l’offerta di prestiti come possibile antidoto alla crisi. Ma la misura si sta rivelando sempre meno efficace ai fini della crescita. E una crisi dell’immobiliare può avere effetti devastanti 

di Joseph Sternberg

The Wall Street Journal Europe

Due anni fa in Cina era di moda essere ribassisti. Poi i venditori allo scoperto come James Chanos (di Enron), nonché tanti economisti e giornalisti, iniziarono a usare parole quali «bolla» e «crash» sempre più spesso e d’improvviso i pessimisti cinesi non furono più soli.

 

Se tale scetticismo si può ricollegare a una persona, questa è Charlene Chu. senior analyst di Fitch, che segue meticolosamente le banche cinesi. È una delle poche persone esterne al governo in grado di parlare del sistema finanziario del Paese e con un posto in prima fila nei dibattiti.

Altri economisti hanno analizzato la reazione cinese alla crisi, l’espansione del credito, il rallentamento della crescita e l’aumento dell’inflazione. Chu lavora su una diversa prospettiva: come ne risentono le banche cinesi?

La sua analisi inizia dal programma di stimolo di Pechino in risposta alla crisi finanziaria globale della seconda metà del 2008. Questo keynesismo in rosso ha comportato un sorprendente aumento dei prestiti bancari, che ha finanziato un boom di immobili e infrastrutture. Poiché la Cina non è affondata nella recessione nonostante le difficoltà dei principali mercati di sbocco, ciò è visto come un successo. Piano, dice Chu. «In molti Paesi, quando il contesto economico si fa difficile, le banche tendono a ritirare il credito.

 

Qui si fa esattamente il contrario. Alcuni ritengono che la politica di credito anticiclica sia positiva. Ma lo è solo nella misura in cui le autorità sono disposte a intervenire e a coprire le perdite dovute alla maggiore esposizione a un contesto in peggioramento».

Aumento dell’esposizione è un eufemismo. Lo stimolo si è risolto in un’ondata di credito impossibile da arginare. «Si pensa che sia durata solo sei mesi», afferma Chu. «Invece è andata avanti per due anni». Fitch stima che i finanziamenti nel 2011 raggiungeranno 18 mila miliardi di yuan (2.800 miliardi di dollari), il 37% del Pil. I prestiti sono aumentati di un importo pari al 42% del Pil sia nel 2009 che nel 2010. Facendo le debite proporzioni «è come avere 6 mila miliardi di dollari di nuovo credito in un anno negli Stati Uniti. «In tale contesto la crescita cinese non appare più così stellare».

Questi numeri sono circa il doppio delle cifre ufficiali ed è importante capire il perché. Gli ultimi due anni hanno visto un’esplosione dell’attività bancario «ombra» poiché Pechino tenta, senza riuscirci, il compromesso tra il denaro facile e l a minimizzazione del rischio di inflazione.

Secondo Chu, sono proliferate forme creative di credito che permettono alle banche di gonfiare i prestiti senza superare le quote ufficiali. Le tattiche più comuni sono prestiti a breve termine alle società a fronte di reddito anticipato, o prestiti fiduciari attraverso i quali le banche facilitano i prestiti tra due società non bancarie, attività tecnicamente illegale.

 

Il problema è che le stesse banche statali hanno creato un sistema di shadow banking per nascondere i prestiti allo Stato. Tali pratiche comportano rischi gravi, afferma Chu. Negli ultimi due anni c’è stata una «rapida diffusione di istituzioni finanziarie non bancarie più piccole che non solo ampliano il credito ma iniziano a interagire con le banche». Ciò accade fuori dal campo visivo: «Spaventa che molte di queste piccole società siano fuori della sorveglianza ufficiale: sono senza regole, non controllate e prive dei requisiti di prudenza».

E i primi risultati si vedono. Wenzhou, città orientale considerata la culla dell’esperimento capitalista cinese, è stata devastata dai fallimenti di pmi strangolate dai prestiti. Molte di queste aziende si erano indebitate a tassi elevati presso finanziatori non ufficiali. Molti hanno chiesto soldi per investire nell’immobiliare o per speculare.

Secondo Chu, questi fallimenti potrebbero influenzare anche le banche. Non è ancora nota l’entità dei vincoli tra un prestito informale e le banche. I fallimenti delle piccole imprese potrebbero innescare insolvenze su quelli che sembrano essere prestiti sicuri.

È presto per dire se questo fenomeno interesserà solo un piccolo numero di imprese o diventerà un rischio sistemico, afferma Chu, la quale sottolinea che il tipo di prestito utilizzato a Wenzhou difficilmente è confinato a una città.

Intanto cresce la tensione anche nelle transazioni regolari. Nel 2006 uno yuan di credito aggiuntivo produceva 0,76 yuan di maggiore pil. Nel 2007 e nel 2008 il contribto era già calato a 0,70 yuan. Ma a inizio 2009, con il boom del credito, uno yuan di stimolo creava un misero 0,18 yuan di crescita del Pil. Da allora la situazione è migliorata, ma per il 2011 si prevede che uno yuan di credito crei solo 0,42 yuan di pil.

Ciò evidenzia che l’espansione del credito è stata in gran parte sprecata in investimenti non produttivi. In un recente rapporto, Chu sottolinea che simili tassi di crescita sono state osservati altrove prima di episodi di stress finanziario.

Si comincia a pensare che la Cina sia sull’orlo del collasso finanziario. Paragoniamola con gli Usa nel 2006: una valanga di credito a basso costo impiegato soprattutto negli immobili, le banche che cartolarizzano crediti. La grande incognita è quale sarà la scintilla della crisi. In occidente è stato l’aumento dei tassi che ha fatto crollare il mercato immobiliare creando grossi problemi di liquidità alle banche.

Questo scenario difficilmente può ripetersi in Cina. La generale opacità del sistema, unita al fatto che la maggior parte delle grandi banche è controllata dallo Stato, garantisce ai leader di Pechino molto più tempo nel caso in cui le banche si ritrovino con i bilanci gravati da sofferenze. Per finanziarsi le banche cinesi si basano sui depositi molto più delle banche occidentali. I controlli sui movimenti di capitale dovrebbero stabilizzarli, ma per Chu ciò è una fragilità. Immaginiamo che le banche siano costrette a riconoscere di avere grandi sofferenze in bilancio. Il grande pericolo per la Cina è che in tal caso ci sarebbero ripercussioni sulla fiducia nell’intero sistema. «Tale evento minerebbe la volontà dei correntisti di mettere i soldi in banca? Se la risposta è no, allora non avremo troppi problemi. In caso contrario potrebbe prodursi una fuga di depositi».

Quest’ultimo punto è molto importante. L’ultima volta che Pechino ha affrontato una crisi bancaria, a fine anni 90, le banche pubbliche hanno venduto i prestiti inesigibili agli investitori esteri. Intanto le autorità hanno imposto limiti molto bassi ai tassi sui depositi. La banche godevano di uno spread garantito tra il tasso sui prestiti e i tassi sui depositi. Ma i depositi non offrono più le sicurezze di un tempo. Quando le autorità, nel tentativo di rafforzare la politica monetaria, hanno aumentato le riserve obbligatorie, le banche un tempo molto liquide si sono improvvisamente trovate alle strettte.

 

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