?MAURIZIO RICCI

Forse è un segno dei tempi che il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, questa settimana abbia dedicato il suo discorso annuale al Parlamento di Strasburgo praticamente l’unica occasione in cui i media lo seguono con attenzione a promuovere tre progetti, che hanno scarsissime possibilità di superare le ostilità dei governi ed essere attuati. Barroso ha parlato di tassazione omogenea, a livello europeo, del risparmio (se ne discute, senza risultati, da anni); di Eurobond (la Germania si oppone con decisione); di tassa sulle transazioni finanziarie (subito impallinata da Londra). E’ un peccato, perché sono proposte utili e sensate, a cominciare dalla Tobin Tax, come tutti chiamano la tassa sulle transazioni finanziarie, da quando, riprendendo un’idea di John Manyard Keynes, la propose negli anni ’70 anche allora senza successo il premio Nobel dell’economia James Tobin. Non è bastato che la Commissione fissasse a livelli molto bassi il prelievo sugli affari dentro e fuori Borsa.
Questi livelli, davvero irrisori, sono: lo 0,1 per cento, ovvero un euro ogni mille di transazione per azioni e obbligazioni e lo 0,01 per cento, un euro ogni diecimila, per future, opzioni, swap e il grande oceano dei derivati. Rispetto alle previsioni di gettito che erano state avanzate in vari studi (oltre 300 miliardi di euro per un’aliquota dello 0,05 per cento), la tassa europea produrrebbe, quindi, solo 57 miliardi di euro l’anno.
Una cifra, comunque, piuttosto corposa, abbastanza da ingolosire i governi, in particolare quello inglese, visto che la City, da sola, rappresenta i due terzi del mercato finanziario europeo. Ma proprio Londra ha detto no: George Osborne, il ministro del Tesoro britannico, ha subito messo le mani avanti, indicando che la tassa è realizzabile solo a livello mondiale, ben consapevole che Tim Geithner, il suo collega americano, ha già affondato il progetto. Di fatto, il veto viene dai governi delle due maggiori piazze finanziarie mondiali.
Ovviamente, non è casuale. La Tobin Tax piace a molti economisti, ma non agli operatori. Il motivo, però, non è il prelievo, che, per gli economisti può aiutare a sollevare le disastrate finanze pubbliche mentre, per gli operatori, quei 57 miliardi di euro sono un costo. Il gettito può sembrare imponente, ma, considerando come si è visto il prelievo per ogni singola transazione, si tratta di spiccioli. Assicurare, con un credit default swap, l’acquisto di 10 milioni di dollari di Btp italiani, costa oggi 460 mila dollari. Con la tassa, ne costerebbe 461 mila: non una differenza da mozzare il fiato in gola. Il motivo, e la vera utilità della Tobin Tax, è un altro: la sabbia che mette negli ingranaggi, fin troppo ben oliati, della nuova finanza. L’obbligo di registrare e tassare le transazioni rallenterebbe, infatti, il frenetico rimbalzare degli affari nel mondo dei mercati computerizzati. Quel “fast trade” fatto di migliaia di operazioni che si concludono al ritmo di nanosecondi, gestiti dagli algoritmi dei software finanziari.
Una ricerca del Wifo, un istituto austriaco, calcola che, con una tassa dello 0,01 per cento, il volume di affari sui derivati diminuirebbe del 30 per cento. Meno volatilità e meno occasioni per la speculazione, più spazio agli investimenti a lungo termine, che interessano l’economia reale: dopo la tempesta del 2008, forse il freno più efficace alla finanza d’assalto.
E’ applicabile la Tobin Tax? Secondo il Wifo e anche una parallela ricerca del Fmi, senza problemi. Proprio la computerizzazione degli affari rende semplice e automatica la loro registrazione. C’è il rischio, come dice Osborne, che gli affari emigrino altrove? Fmi e Wifo sono scettici. Se lavorate sui nanosecondi, non potete permettervi di perderne due o tre, quelli che impiega il segnale per viaggiare migliaia di chilometri. Per dirla in due parole: gli affari possono emigrare da Francoforte o Parigi a Londra, non da Londra a New York.
Gli inglesi d’altra parte applicano da tempo, senza conseguenze, un bollo dello 0,5 per cento sul traffico di azioni della City. La conclusione è che una Tobin Tax europea è possibile, a patto che vi partecipi anche Londra.
Non pare decisiva neanche l’ultima obiezione: il peso di quei 57 miliardi di euro finirebbe per rallentare la già fragile crescita europea di 0,5 punti l’anno. Ma non è affatto detto che il gettito debba essere inghiottito nelle casse degli Stati. Se il problema non è incassare soldi, ma frenare la speculazione, il prelievo potrebbe essere redistribuito per alleggerire altre imposte, più direttamente legate alla crescita economica. Una Tobin Tax per limare l’Irpef.