L’effetto domino del debito sovrano si è abbattuto sulle principali società italiane. Ma non a Piazza Affari dove, dopo i forti rialzi di due giorni fa, ieri il Ftse/Mib ha chiuso in rialzo del 3,55 per cento. Così nella notte tra il 5 e il 6 ottobre, all’indomani del taglio della valutazione dell’Italia di tre gradini da Aa2 ad A2, Moody’s ha rivisto al ribasso il giudizio sui principali gruppi italiani, legati – dal punto di vista azionario o per le caratteristiche del business – al nostro Stato. A partire da Eni, Enel, Terna, Finmeccanica e Poste Italiane, che come azionista di riferimento hanno proprio il Tesoro. In particolare, il rating di Finmeccanica è stato abbassato da A3 a Baa2, quello di Terna da A2 a A3, quello di Eni da Aa3 a A1, mentre quello di Enel è passato da A2 a A3 e quello delle Poste Italiane da Aa2 a A2. Per Eni Enel e Terna «è diminuita la possibilità di avere un sostegno straordinario da parte dello Stato», ha sottolineato Moody’s. Quanto a Finmeccanica, invece, il giudizio è stato abbassato, in considerazione di «una qualità del credito che si è deteriorata». Stesso discorso per Cassa Depositi e Prestiti il cui taglio del rating (passato da Aa2 a A2, con outlook negativo) «è dovuto al fatto – spiega Moody’s – di essere di proprietà pubblica e quindi allo stesso livello del rating sovrano». Nel mirino però sono finite anche le banche. Intesa Sanpaolo (e la controllata Banca Imi) e Unicredit si sono viste abbassare il rating a A2 dal livello precedente di Aa3, con prospettive negative. Ma non solo. L’agenzia di rating ha rivisto al ribasso il giudizio di Mps a Baa1 da A2 (outlook stabile), del Banco Popolare a Baa2 da A2 (negativo), di Ubi a A3 da A2 (stabile) e della Bpm a A3 da A1 (outlook in revisione per un possibile ulteriore downgrade). Inoltre, tra le banche non comprese nel paniere principale di Piazza Affari, lagenzia ha rivisto al ribasso il giudizio su Carige a Baa1 da A2 (negativo) su Credem a A3 da A2 (stabile) e su Creval a Baa1 da A3 (stabile). Discorso diverso invece per Generali e Allianz Italy, di cui Moody’s ha confermato il rating, Per il Leone, il cui outlook è stato abbassando però a negativo, la conferma del rating è giustificata in virtù «dell’ampia diversificazione del gruppo e delle caratteristiche flessibili di prodotto che servono a isolarlo in qualche modo dallo stress relativo al debito sovrano italiano», si legge nel documento. In generale, è la «scarsa flessibilità finanziaria» del governo italiano uno dei fattori chiave del taglio operato da Moody’s al rating sul debito e sui depositi di alcuni istituti nazionali. Lo ha spiegato proprio l’agenzia americana in una nota in cui sottolinea anche «l’accresciuta incertezza sul medio termine a proposito della volontà dei membri dell’Unione Europea di sostenere i creditori delle istituzioni». Moody’s ritiene comunque «che le banche italiane riceveranno sostegno, in caso di necessità». Nel dettaglio, l’agenzia ha diviso la propria valutazione degli istituti italiani in tre categorie: quelli con alto sostegno «sistemico» e con la più forte presenza, come Unicredit, Intesa Sanpaolo e Mps; quelli con sostegno moderato (un gruppo che include Banca Carige, Banca delle Marche, Bpm, Banca Sella Holding, Banco Popolare, Credem, Creval e Ubi) e quelle con basso o nullo sostegno. Il taglio del debito italiano e dei principali istituti bancari non poteva non avere delle conseguenze negative anche sui bond: il rating delle obbligazioni di Intesa Sanpaolo è sceso infatti a Aa1 da Aaa; stesso taglio per i bond di Carige, Mps, Banca delle Marche e Cdp, mentre quelli del Banco Popolare sono diminuiti a Aa2. Tutti, in ogni caso, sono sotto esame per possibili ulteriori tagli, mentre le emissioni di Bpm, Credem, Ubi e Unicredit sono rimaste a livello Aaa, ma sotto review per un possible downgrade. Da ultimo, Moody’s ha preso di mira gli enti locali italiani, declassando il rating di trenta enti, con outlook negativo. La mossa di Moody’s era però ampiamente attesa dal mercato e ripercorre esattamente quanto fatto due settimane fa dalla rivale S&P, che il 20 settembre declassò l’Italia di un gradino e, il giorno dopo, alcune banche, tra cui Intesa Sanpaolo, Mediobanca e Unicredit. Con un effetto però: di peggiorare ulteriormente la capacità di finanziamento degli istituti nazionali. Secondo un banchiere, «adesso sarà ancor più difficile la raccolta sul mercato da parte delle banche perché le emissioni obbligazionarie costeranno sempre di più e saranno scartate da quegli investitori istituzionali vincolati a tenere in portafoglio determinati rating».