di Roberto Sommella

C’è uno spettro che si aggira da tempo tra le aziende italiane ma che il governo Berlusconi non è riuscito ancora a scacciare: è la legge 231, meglio conosciuta dai manager come la manette alle aziende. La riforma della normativa sulla responsabilità penale delle industrie, che proprio quest’anno compie dieci anni, è da mesi insabbiata nei cassetti del ministero della Giustizia perchè l’ex Guardasigilli, Angelino Alfano, non è riuscito a tramutarla, come promesso da tempo, in un testo da presentare in Consiglio dei ministri. Il motivo di tale stop sta in vari intoppi burocatrici (visto che sulla necessità di rivedere la 231 si è raggiunta da tempo una certa condivisione bipartisan), non ultimo una sotterranea ed evidente ritrosia di una parte della magistratura che proprio della legge ammanetta-aziende ha fatto un modus operandi in inchieste di grido come quelle che hanno coinvolto Parmalat, Fastweb, Banco Popolare e Menarini e che al momento non coinvolge invece il caso Unicredit. E sebbene il motivo per cui la banca di Piazza Cordusio allo stato non teme di avere ripercussioni su questo fronte è molto solido, visto che la legge 231 non è prevista per i reati connessi alla frode fiscale, la paura che nel corso dell’inchiesta che ha preso di mira l’ex amministratore delegato Alessandro Profumo possa spuntare anche questa mannaia giudiziaria è grande. Forse non accadrà, ma solo balenare una tale evenienza riporta in auge il dibattito sull’urgenza di ristrutturare tre punti fondamentali della legge, e probabilmente ne è consapevole lo stesso neoministro della Giustizia, Nitto Palma: si tratta dell’inversione dell’onere della prova, che la bozza di disegno di legge del governo rimetteva in capo al magistrato e non più all’azienda; della revisione del modello di certificazione sui controlli interni all’azienda, che si vorrebbe appaltare ad una società all’esterno; e dell’aggiornamento della lunghissima serie di reati per cui un’azienda è perseguibile con la legge 231, nonché di alcune modalità sulla custodia cautelare.

Sul tema dei reati aziendali si è scritto molto e Confindustria e Assonime si sono da tempo schierate per una rivisitazione degli stessi, aggiornati non più tardi di qualche mese fa con il decreto di agosto che ha esteso anche ai delitti ambientali la sfera di applicazione. Ma su tutti fa premio il fatto che ad oggi per alcuni reati strettamente connessi all’esercizio aziendale non scattano le manette all’impresa. Il caso più clamoroso è proprio legato al processo sul Banco Popolare e il crack di Italease. Il giudice per le udienze preliminari che ha deciso il rinvio a giudizio dell’ex ad Massimo Faenza e di altri due manager dell’istituto, ha invece prosciolto dalle accuse Deloitte & Touche, che era sotto indagine in base alla legge 231. Come si spiega questa decisione che sembra un assurdo giuridico? La risposta è semplice e al tempo stesso pirandelliana, perché non fa che rafforzare le ragioni di chi preme per una revisione della normativa: la società D & T doveva rispondere di falso in revisione aggravato, ipotesi però che non è inclusa nell’elenco di reati che fanno scattare le manette alle imprese. Lista in cui sono compresi, tra gli altri, gli illeciti commessi contro la pubblica amministrazione, il riciclaggio e gli abusi di mercato. Non solo. Per la legge, un’azienda può addirittura essere perseguita penalmente se un componente del consiglio d’amministrazione ha agevolato o commesso la pratica dell’infibulazione (!!!) mentre può scamparla se è accusata di falso in revisione aggravata, reato decisamente più attinente alla vita e al bilancio di una spa della pur odiosa e disgustosa pratica di mutilazione femminile. C’è quindi più di un motivo per rivedere e in fretta tutta la normativa. (riproduzione riservata)