MARCO PANARA

 

Gli italiani si impoveriscono anno dopo anno. Lo sentono sulla propria pelle e nelle tasche. Non è solo una percezione, lo confermano la stagnazione dei consumi (il reddito disponibile delle famiglie ha avuto una crescita inferiore all’1 per cento tra il 2005 e il 2007 ed è diventata negativa negli anni successivi) e la riduzione della capacità di risparmio, che negli ultimi dieci anni si è ridotta di 4 punti percentuali. Naturalmente non tutti sono più poveri, ci sono quelli, e non sono pochissimi, il cui reddito e il cui patrimonio invece salgono e continuano a crescere anche in questi anni di crisi profonda. Già questo è un problema, una minoranza che accumula molto non conforta una maggioranza che fa fatica. E non aiuta neanche l’economia, per una ragione molto semplice: la ricchezza concentrata diventa finanza, o immobili (per lo più già esistenti il cui trasferimento non genera crescita), mentre la ricchezza distribuita diventa economia. Ovvero, per fare un esempio, se c’è qualcuno che guadagna 100 mila euro al mese forse il primo mese li spenderà tutti, ma da quello successivo comincerà ad accumularli e investirà in strumenti finanziari o nell’ennesimo appartamento. Nell’uno e nell’altro modo sono per la gran parte denari che escono dal ciclo produttivo per immobilizzarsi in una casa o per finire in quella nuvola rappresentata dalla finanza, dalla quale sempre meno filtra nell’economia reale. Se invece ci sono cento persone che guadagnano mille euro al mese in più, ebbene costoro li spenderanno tutti o, se ne accumuleranno una parte, sarà per comprare anch’essi un’abitazione, la prima, e arredarla, per cambiare l’auto o il frigorifero, per pagare il master dei figli. Sono soldi che restano nel circolo dell’economia reale.
Tuttavia è possibile che, dal punto di vista della ricchezza prodotta, quella che finisce nelle mani dei pochi superi la diminuzione della quota che viene distribuita ai molti. In questo caso avremmo una società diseguale, meno capace di crescere ma, nel suo insieme, non economicamente più povera. E’ quando la somma algebrica tra il maggior reddito dei pochi e il minor reddito dei molti ha un segno negativo che il paese, visto nella sua dimensione economica complessiva, si impoverisce.
Nel primo caso, quello della somma positiva, il problema è “solo” (si fa per dire) un problema di distribuzione. Quando alla più iniqua distribuzione si aggiunge un risultato negativo di quella somma algebrica, allora vuol dire che c’è un problema in più da risolvere, perché non solo la società diventa progressivamente e, aggiungo, pericolosamente, più diseguale, ma il paese diventa anche più povero.
E’ quello che sta accadendo all’Italia da vent’anni a questa parte ed è un fenomeno in qualche modo misurabile, sia pure con le cautele che diremo, utilizzando un termometro: la posizione patrimoniale netta sull’estero. Quella dell’Italia era positiva negli ultimi anni ’80 ed ha cominciato ad essere negativa con l’ingresso nel decennio successivo. Poca cosa all’inizio (5,3 miliardi di euro nel 1990) ma poi la situazione si è fatta progressivamente più vistosa: 64 miliardi nel ’92, 103 nel ’97 e poi a crescere fino ad arrivare a 376 miliardi nel 2010 che supereranno 400 alla fine del prossimo dicembre.
La posizione patrimoniale netta sull’estero è il risultato di un bilancio (patrimoniale appunto) costruito sottraendo agli attivi, cioè a tutto ciò che gli italiani hanno accumulato oltre confine, i passivi, ovvero tutto quanto gli italiani devono a creditori esteri. Se il risultato è negativo vuol dire che dobbiamo più di quanto possediamo: nel nostro caso, a oggi, oltre 400 miliardi di euro. E’ una cifra enorme, superiore al 25 per cento del pil, contro il 10 per cento della Francia o il 13 dell’eurozona o, se vogliamo farci del male, l’attivo del 41 per della Germania. Oppure, se invece vogliamo trovare una magra consolazione, il 88 per cento della Spagna o il 104 della Grecia.
Gli economisti e gli statistici, qui vengono le cautele, spiegano che il dato di quei 400 miliardi di passivo della nostra posizione patrimoniale netta all’estero va preso con le molle. Perché se ci siamo impoveriti o meno dipende da cosa si è fatto con quei soldi presi a prestito oltre confine. Se sono serviti per effettuare investimenti allora non c’è impoverimento, perché a fronte di quei debiti ci sono beni, magari produttivi di reddito, che bilanciano l’esposizione. Diverso è il caso se invece sono stati utilizzati per finanziare i consumi, perché i consumi, lo dice la parola stessa, una volta fatti, nulla resta.
Non esistono dati precisi sull’utilizzo di quel debito, ma visto che il grosso della sua crescita è rappresentata dai Btp che sempre più numerosi sono finiti in mani straniere (circa 800 miliardi), e constatato che gli investimenti assorbono una quota marginale del bilancio pubblico, si può dire senza tema di sbagliare troppo che una buona parte di quei miliardi non sono andati in investimenti ma, ainoi, in spese correnti, che sono i consumi della pubblica amministrazione.
Purtroppo la situazione non è ribaltata dal mondo delle imprese. Il tasso di ammortamento del patrimonio è sceso dal 6% del 1993 a meno del 4% nel 2010, con il risultato che la vita utile degli impianti si allunga (da 16 anni nel 2003 a 26 nel 2010). Impianti vecchi quindi, che testimoniano una cosa: le imprese hanno investito poco, anche loro. La conclusione è che il grosso di quel debito netto estero è stato utilizzato per finanziare i consumi: l’Italia quei miliardi se li è mangiati, non li ha più. Le rimane il debito, quindi è più povera.
Perché? La risposta ce la dà la bilancia dei pagamenti, ovvero la somma algebrica delle entrate e delle uscite annuali del paese in relazione al resto del mondo. Il saldo di conto corrente dell’Italia è negativo da molti anni e progressivamente peggiora. Da 300 milioni di euro del 2001 siamo arrivati a 54,3 miliardi di euro del 2010. Nei primi sette mesi del 2011 giunge a sfiorare 40 miliardi. Sono le esportazioni che non bastano a coprire il costo delle importazioni, a causa della insufficiente competitività internazionale di una parte delle nostre imprese e del peso enorme della bolletta energetica. Sono i trasferimenti, ovvero la parte dei contributi pubblici alle organizzazioni internazionali che non tornano indietro, le rimesse degli immigrati (i milioni di badanti e di altri lavoratori che mandano a casa una parte delle loro esigue paghe), ma e non è poca cosa anche il nostro sostegno ai nuovi emigranti, e cioè i denari che spendiamo per far studiare i nostri figli all’estero perché non ci fidiamo delle università italiane o quelli che mandiamo loro in attesa che si trovino un lavoro oltre confine, visto che in Italia hanno abbandonato ogni speranza. E, infine sono le cedole su quegli 800 miliardi di Btp posseduti oltre confine.
Per coprire questo deficit dei conti correnti le strade sono due: una è fare debiti all’estero, qui arriviamo a quel debito netto monstre che abbiamo accumulato, l’altra è vendere a qualche compratore estero i gioielli di famiglia. Parmalat, per fare un esempio.
In realtà gli investimenti esteri in Italia non sono grandissime cifre. Assai maggiori, e questa è una buona notizia, sono quelli delle imp
rese italiane nello sforzo di internazionalizzarsi. Ne vorremmo di più di investimenti esteri in Italia, per portare qui lavoro, tecnologie, innovazione e management, anche se visto che gli stessi italiani investono poco in patria comprendiamo le ragioni per le quali non arrivano.
Il problema non è nella quantità degli investimenti, che ci piacerebbe maggiore, è nella loro qualità. Quelli che vorremmo sono i cosiddetti green field, ovvero imprese multinazionali che scelgono l’Italia per impiantarci stabilimenti, laboratori e centri di ricerca. Invece il 90% di quelli che arrivano sono investimenti brown field e cioè gruppi stranieri che comprano imprese italiane già esistenti, le loro tecnologie e spesso soprattutto le loro quote di mercato. La differenza è che nel primo caso quel denaro che arriva crea qualcosa di nuovo, nel secondo compra quello che c’è già. E talvolta se porta anche via.