di Vittorio Zirnstein 

I mercati finanziari hanno accolto con entusiasmo i risultati del vertice europeo di mercoledì che, in pratica, ha stabilito le dimensioni dell’haircut greco, quelle dell’Efsf e quelle della necessaria ondata di ricapitalizzazioni che riguarderà le banche del Vecchio Continente. L’ansia era tanta – par di vederli i capi di Stato e di governo, riuniti attorno a un tavolo sino alle quattro di notte, a discutere tra nuvole di fumo con gli occhi cerchiati e la bocca impastata – ed è quindi bastata la notizia che l’accordo era stato trovato per tirare un sonoro respiro di sollievo. 
Giovedì tutte le Borse internazionali, non solo quelle europee, ma anche quelle Usa, hanno chiuso con performance che non si vedevano più da molto tempo. Da notare che il Cac40, a Parigi, ha battuto tutti con un balzo del 6,82%. Una performance che la dice molto più lunga di tanti sorrisini e ammiccamenti sulla reale solidità del sistema bancario transalpino e su chi rischiava di più da un crac di Atene.
Ma tanto entusiasmo è giustificato? Procedendo con ordine, le conclusioni del vertice individuano al 50% la misura dell’haircut volontario sul debito greco, che è stato concordato con i creditori privati, in particolare banche riunite nell’Iif (Institute of International Finance). In questo modo Atene dovrebbe raggiungere un proporzione tra debito e Pil del 120% entro il 2020. Il secondo punto dell’accordo raggiunto in nottata prevede che le banche continentali portino entro il 30 giugno 2012 al 9% il coefficiente patrimoniale (il taumaturgico Core Tier 1, dato dal rapporto tra capitale e attività ponderate per il rischio), oltre a ciò i governativi dovranno essere valutati in bilancio a valori di mercato. Infine il terzo punto: il Fondo salva Stati sarà rafforzato grazie all’utilizzo della leva finanziaria (pari a massimo quattro volte i mezzi propri) e la sua capienza salirà a mille miliardi di euro. A parte questo non c’è molto da dire, se non che non ci sarà alcuna estensione delle garanzie concesse ai governi. Si tratta di una clausola molto cara alla Germania e al suo cancelliere in caduta libera di consensi elettorali.
È pur vero che un accordo tra i Paesi europei è una rara notizia, e come tale va festeggiata, ma gratta gratta, non emergono soluzioni risolutive dei problemi dell’euro. Quanto al primo punto, l’accordo sancisce di fatto un’insolvenza camuffata da parte della Grecia. Gli effetti, nonostante le stime, non sono conosciuti. Per di più non è certo che al 2020 il rapporto debito su Pil scenda davvero al 120%. Tra l’altro, il paragone può apparire irriverente, ma è quanto il debito pesa sull’Italia in questo momento. Pertanto, anche se raggiunto, il risultato potrebbe non bastare. Sul secondo punto hanno risposto sonoramente le banche: gli obiettivi di patrimonializzazione imposti, uniti per di più alle inevitabili svalutazioni dovute all’obbligo di valutare i sovereign a valore di mercato, potrebbero provocare una nuova stretta creditizia, riportandoci al 2008, quando il credito era diventato merce rarissima e costosissima. Sull’Efsf regna nebbia fitta. Il poco che si sa è che verranno utilizzati strumenti derivati di vario genere, un’opzione pericolosa, che potrebbe scatenare la speculazione, soprattutto in assenza di un pagatore di ultima istanza, che non potrebbe essere altri che la Bce, la quale però non è disposta per statuto. Infine manca un quarto punto: nell’accordo non si fa alcun accenno a eventuali misure per la crescita continentale. Dopo che l’Europa ha chiesto all’Italia gli esami di riparazione su questo tema, forse un autoesamino non sarebbe stato negativo. Insomma, nonostante il passo avanti, l’accordo di mercoledì è una nuova puntata verso il risanamento dell’euro cui dovranno seguirne altre. E i mercati non tarderanno a chiederle.