di Enrico Lucchinetti*

 

Nel clima di elevata instabilità finanziaria che ha coinvolto anche l’Italia, il risparmio delle famiglie rappresenta un sicuro elemento di forza. In tal senso, rappresenta un vero patrimonio nazionale, che in quanto tale andrebbe tutelato e sviluppato.

Tale patrimonio, che abbiamo ereditato e costruito a partire dagli anni del boom economico, oggi cresce sempre meno: negli ultimi sette anni il tasso di crescita della ricchezza finanziaria delle famiglie è stato in media inferiore del 2,5% rispetto agli altri principali Paesi europei: come dire un minor risparmio di circa 500 miliardi di euro l’anno.

In tale contesto i fondi comuni sono il prodotto che ha sofferto di più: il loro saldo, infatti, è passato da oltre 650 miliardi di euro nel 2006 a circa 460 miliardi nel giugno del 2011, con un calo complessivo superiore al 30% in meno in 5 anni.

Le cause di questa crisi sono diverse e vanno ricercate sia in fattori di natura contingente – come l’andamento dei mercati e asset mix sempre più conservativi – sia in fattori di natura strutturale, ovvero la bassa crescita economica, una popolazione che invecchiando fatica ad accantonare capitale, la minor propensione al risparmio dei più giovani e delle famiglie e la mancanza di una fiscalità che incentivi il risparmio di lungo termine.

Riteniamo, tuttavia, che si debba tenere in considerazione anche un altro elemento fondamentale di cui non si è discusso e su cui non si riflette abbastanza, ma che, unito a quanto ricordato sopra, possa in parte spiegare questa crisi, ossia il cliente, i suoi bisogni e i suoi comportamenti di acquisto.

Le evidenze che emergono da una ricerca di mercato condotta da McKinsey su più di 30 mila investitori moderatamente facoltosi – in Italia, Germania e Francia – che abbiano acquistato prodotti di risparmio negli ultimi 18 mesi, mostrano un evidente disallineamento tra le necessità di chi risparmia e le risposte fornite dall’industria, soprattutto con riferimento al prodotto fondo comune, che di fatto esce perdente rispetto alle polizze vita e ai conti di deposito remunerati.

Partiamo però dal cliente.

In genere, l’investitore italiano si confronta con le decisioni di investimento senza la necessaria cultura finanziaria, in modo irrazionale e con aspettative spesso irrealistiche. A titolo di esempio, un investitore su quattro non sa che un maggior rendimento atteso non può prescindere da un maggiore rischio implicito; più della metà degli intervistati dichiara di aver investito con un orizzonte temporale di circa sette anni ma di aver venduto tutto dopo meno di tre anni. Infine, in più del 60% dei casi le aspettative di rendimento del patrimonio investito – superiori all’8% annuo – risultano totalmente irrealistiche. Non c’è quindi da sorprendersi dell’insoddisfazione generalizzata rispetto alle performance dei propri investimenti.

Dallo studio emerge, infine, che il 70% degli investitori italiani dichiara di aver bisogno di consulenza per le proprie decisioni di investimento, ma poi in più del 60% dei casi considera il consulente come «non completamente indipendente (rispetto agli obiettivi della casa madre) nei suggerimenti che fornisce».

 

La ricerca ha poi indagato in profondità i momenti salienti del processo decisionale con cui l’investitore arriva a scegliere un prodotto di risparmio piuttosto che un altro, nonché i fattori che possono in seguito dare luogo (o meno) a un legame di fedeltà a un determinato prodotto.

È proprio lungo questo viaggio che il prodotto fondo comune soffre di più rispetto agli altri prodotti di investimento, perché viene acquistato meno frequentemente e, soprattutto, è difficile che si venga a creare un rapporto di fidelizzazione con l’investitore. Il processo di acquisto inizia, in genere, con un evento ben preciso che induce il cliente a investire; le due principali motivazioni sono, nel 50-60% dei casi, la disponibilità di una somma di denaro o l’insoddisfazione per un investimento passato. Il consiglio del proprio consulente è sì importante ma non determinante, almeno in questa fase iniziale.

Una volta presa la decisione di investire, il cliente ha in mente due-tre prodotti alternativi. A queste opzioni, in seguito, se ne potranno eventualmente aggiungere altre.

Essere presenti nella mente dell’investitore in questa fase iniziale è di fondamentale importanza. Diversamente da ciò che accade in altri settori, se un prodotto d’investimento è stato preso in considerazione all’inizio del processo di acquisto, esso avrà oltre il 25% di probabilità di essere acquistato. Nel caso dell’assicurazione auto, invece, questa probabilità scende al 5%, testimoniando il fatto che il cliente valuta molte più offerte prima di prendere una decisione.

Torniamo ai prodotti di investimento. I conti di deposito occupano quasi tutti i pensieri della clientela, mentre i fondi comuni li condividono con almeno un altro prodotto e sono quindi soggetti a una competizione maggiore già prima di essere selezionati.

In questa fase iniziale di valutazione del prodotto migliore, il ruolo del consulente diventa cruciale per indirizzare le scelte del cliente. Questo è particolarmente vero per i fondi comuni che, in generale, sono percepiti come complessi e costosi e che richiedono, quindi, uno sforzo di vendita maggiore.

Se il cliente sceglie il prodotto fondo comune a questo punto del processo, lo fa essenzialmente per il potenziale di apprezzamento offerto, mentre le assicurazioni Vita e i conti deposito sono acquistati per la garanzia del capitale e la certezza di rendimento. Paradossalmente, le caratteristiche distintive di un fondo comune – quali la diversificazione dei rischi, la trasparenza e l’efficienza – non sono elementi determinanti per l’acquisto.

Queste motivazioni, unite all’irrazionalità e alle aspettative di rendimento irrealistiche di cui si è discusso, fanno sì che coloro che abbiano puntato sui fondi comuni siano particolarmente sensibili all’andamento dei propri investimenti – legato, per altro, alla performance dei mercati – e arrivino spesso alla conclusione di aver sbagliato scelta.

Pertanto, nella maggior parte dei casi chi ha investito in fondi comuni dichiara che la prossima volta acquisterà un prodotto di investimento che gli possa offrire la garanzia del capitale e la certezza del rendimento, ovvero proprio le caratteristiche distintive delle polizze vita e dei conti deposito remunerati. Ne consegue che per i fondi comuni difficilmente si instaurerà quel meccanismo virtuoso di fedeltà al prodotto che induce a dichiarare «sono davvero soddisfatto dell’acquisto e lo rifarò in futuro».

 

Se tutto ciò è vero, solo una piccola parte dei risparmiatori – ovvero i trader e coloro che manterranno i propri fondi comuni investiti per un periodo sufficientemente lungo – sarà soddisfatta delle proprie scelte, mentre la maggior parte degli investitori si rivolgerà progressivamente a prodotti alternativi, determinando così una lenta ma inesorabile contrazione della domanda. Uscire da questo circolo vizioso è possibile ma richiede all’industria – sia dal lato della produzione che della distribuzione – di investire per comprendere a fondo i fattori alla base delle scelte dei propri clienti e, se necessario, ripensare le caratteristiche dei prodotti, la comunicazione, la consulenza e l’assistenza post vendita per vincere la crescente sfiducia dei clienti. (riproduzione riservata)

*partner McKinsey & Company