MARIANO MANGIA
I fondi pensione limitano i danni della crisi, ma non convincono. A far meglio, nei primi nove mesi di questo tribolato 2011, sono i più prudenti fondi pensione negoziali, con risultati che vanno dal +1,2% dei comparti obbligazionari al 6,9% degli azionari. Il rendimento medio dei fondi aperti è negativo del 5%, qui i comparti azionari sono a 10%, e i Pip di tipo unit linked, infine, hanno perso il 9%. Giudicare strumenti di previdenza complementare su un arco di soli nove mesi è ingeneroso, ma si può dire che non sfigurano anche su un orizzonte temporale di cinque anni. Il rapporto rendimento/rischio dei fondi negoziali e aperti di tipo bilanciato–moderato, ad esempio, è decisamente migliore di quello dei fondi comuni di diritto italiano della stessa tipologia. Cosa è che non convince, allora? Proprio l’approccio d’investimento, poco “previdenziale”, come sottolinea lo stesso organismo di vigilanza, la Covip, nella sua ultima relazione annuale. Con un età media degli aderenti di circa 44 anni, scrive la Covip, andrebbe esteso in misura significativa l’orizzonte temporale degli investimenti. E, invece, la durata media della componente obbligazionaria degli ultimi cinque anni è compresa tra i 3,5 e i 4 anni, contro i 17 20 anni di un campione di fondi pensione anglosassoni in fase di avvio che, peraltro, investono in azioni una quota doppia rispetto a quelli italiani, ma con una velocità di rotazione del capitale azionario pari a meno della metà. La visione di breve termine, lo shorttermism, non è un fenomeno solo italiano. Secondo una ricerca svolta dal World Economic Forum in collaborazione con Oliver Wyman, gli investitori istituzionali di lungo termine possiedono poco meno della metà degli attivi mondiali gestiti professionalmente, ma, per effetto di diversi condizionamenti che vanno dal profilo delle passività alla scarsa fiducia nei rendimenti dell’investimento di lungo termine, adoperano in realtà solo il 25% circa di questa massa di denaro per investimenti di lungo periodo. «In assenza di cambiamenti, esterni ed interni alle istituzioni, nello scenario di investimento», conclude il report, «ci attendiamo una riduzione complessiva della quota di attivi indirizzati all’investimento di lungo termine, con potenziali significative implicazioni economiche». Questo guardare al risultato di breve termine appare tuttavia più esasperato per i fondi pensioni italiani, complici alcune peculiarità del nostro sistema. Da una parte ai gestori sono consentiti limitati scostamenti rispetto al benchmark, come testimonia il ridotto valore della tracking error volatility, la volatilità dei rendimenti in eccesso rispetto al benchmark; dall’altra, c’è un continuo misurarli con indici di mercato che li spinge a un’elevata movimentazione dei portafogli, alla ricerca del titolo ‘giusto’, ma questa iperattività non sempre si traduce, secondo la Covip, in un extra rendimento. C’è un equivoco di fondo sul ruolo del secondo pilastro: i fondi pensione agiscono di fatto come se fossero intermediari finanziari. Il multi comparto, la valorizzazione mark to market mensile, la possibilità data agli aderenti di effettuare switch o di richiedere anticipazioni, li rendono una sorta di bancomat previdenziale», commenta Davide Squarzoni, direttore generale di Prometeia. «Tutto questo è totalmente contrario a una logica di lungo termine, perché se devi essere liquido, se devi avere un benchmark di mercato piuttosto che consentire agli aderenti di ottenere un rendimento target, uno degli scopi della previdenza complementare, ti rendi simile a un piano di accumulo di un fondo comune di investimento». Come uscirne? “Cercare di distinguere sempre di più il secondo pilastro dal terzo”, è il parere di Squarzoni. «Il terzo pilastro rimane quello che di fatto già è, ossia piano di accumulo in fondi, piuttosto che forme assicurative a capitale o a rendimento garantito. Il secondo pilastro deve diventare molto più simile a quello che è negli altri paesi e, cioè, fondi con un unico portafoglio, senza tanti comparti che fanno solo confusione, con criteri di contabilità che non sono necessariamente ai prezzi di mercati per tutti gli asset, ma che salvaguardino gli impieghi di lungo periodo, comprese infrastrutture o immobili, che necessariamente richiedono orizzonti temporali più ampi anche in termini di valorizzazione. E poi sono fondi che devono prendersi la responsabilità di prestare in forma diretta le eventuali garanzie di rendimento degli investimenti o di un determinato livello di prestazioni». Nell’immediato, alcune modifiche normative, in corso di definizione o allo studio, potranno apportare cambiamenti all’approccio agli investimenti. La Covip ha proposto una revisione dei criteri contabili che attenui il principio del mark to market, la valorizzazione ai prezzi di mercato, che è il maggior freno all’investimento in obbligazioni a lunga scadenza. Si è da tempo in attesa di una revisione del decreto 703/96 che ampli le possibilità di investimento dei fondi pensione ed è in consultazione la bozza di regolamento che stabilisce i mezzi patrimoniali di cui debbono dotarsi i fondi pensione che coprono rischi biometrici o offrono garanzie di rendimento o di prestazione. Quella che potrebbe già partire è una concentrazione dell’offerta: solo tra i fondi negoziali sono operativi 94 comparti, il 49% dei quali non supera i 50 milioni di euro di patrimonio e in un 11 non arrivano nemmeno a 10 milioni.