ANDREA GRECO
Poveri fondi comuni. Oppressi tra l’incudine della raccolta statale e il martello della raccolta bancaria, falcidiati dai ribassi dei mercati. La raccolta Assogestioni di settembre ha visto svanire 6 miliardi di flussi. Da gennaio e solo i fondi aperti di diritto italiano ed estero il salasso è di 3,87 miliardi per gli azionari, 2,5 sui bond, ben 7 sui fondi di liquidità. Perché la liquidità ormai è merce rara, così le banche italiane (padrone dell’80% dei fondi) la portano in casa con offerte doc sui conti di deposito, che rendono fino al 4% lordo l’anno, sono garantiti fino a 103mila euro e fanno dura concorrenza ai titoli pubblici. I quali “battono” ormai i bond bancari (tipicità nazionale), dopo la norma aumenta al 20% l’aliquota di questi ultimi. Ma il Tesoro già studia la contromossa: il collocamento diretto, online, di Btp, per disintermediare le banche (e le loro commissioni). In questo grumo competitivo tra poteri, ai fondi tocca la parte del fratello povero. È chiaro che non c’è gara, ed è ingiusto lasciare il problema ad Assogestioni: vanno ripensati gli assetti proprietari dei fondi. Ci provò “super” Mario Draghi, al suo insediamento da governatore. Non ce l’ha fatta. Eppure i fondi sono sinonimo mondiale di risparmio professionale; non si può lasciare che la crisi se li mangi, e il denaro che resta agli italiani finisca in grigi bond tuttofare o in più grigi conti a tasso fisso.