L’Europa chiede che gli italiani lascino più tardi il lavoro. E stavolta nel mirino finisce chi si ritira giovane anche se con 40 anni di contributi e chi fa ricorso alle quote. Ecco allora quando si potrà andare in pensione se si supera l’attuale sistema 

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Lo hanno chiesto Jean Claude Trichet e Mario Draghi nell’ormai famosa lettera al governo italiano. Lo vogliono la Confindustria, l’Abi e Rete imprese Italia che, insieme, hanno portato al tavolo di confronto con l’esecutivo un documento comune in cinque punti caratterizzato proprio da quella riforma.

Persino Silvio Berlusconi e il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, sono favorevoli. Ma tutti i propositi di rivedere per un’ultima e definitiva volta il sistema pensionistico italiano, abolendo le pensioni di anzianità e anticipando già dal 2012 l’equiparazione dell’età di ritiro dal lavoro delle donne nel settore privato a quella degli uomini (65 anni), si sono infranti sul muro eretto a difesa dell’attuale sistema da Umberto Bossi. Un muro che, in realtà, comincia a mostrare qualche crepa. Piccole aperture, mai ufficiali, sussurrate a mezza bocca dall’inner circle del leader del Carroccio, ma che permettono quantomeno di non sbarrare la porta del cantiere previdenziale. Del resto durante la bufera estiva sui mercati, nonostante i niet leghisti, nei due decreti salva-spread il governo qualche mattoncino lo ha piazzato. Ha anticipato il meccanismo di adeguamento automatico dell’età di pensionamento alla speranza di vita al 2013 (dal 2015), ha congelato la perequazione automatica delle pensioni più alte e, rispondendo in parte alle richieste di Draghi e Trichet, ha avviato l’innalzamento dell’età di ritiro delle donne che salirà (ma solo nel 2026) fino a 65 anni.

Insomma, ritocchi in un cantiere sempre aperto negli ultimi anni ma che non ha mai affrontato il problema partendo dalle sue fondamenta: l’anomalia tutta italiana delle pensioni di anzianità.

Dopo quasi venti anni di riforme, partite con quella di Lamberto Dini del 1995, il sistema previdenziale è sulla carta uno dei migliori d’Europa. Ma sarà a pieno regime solo nel 2030. Da quella data il nuovo flusso di pensioni sarà tutto basato sul sistema contributivo. Fino al 2050 convivranno pensionati di serie B, che incassano l’assegno in base a quanto hanno versato nelle casse dell’Inps, e pensionati di serie A che, invece, avranno la loro pensione parametrata all’ultima retribuzione percepita. Chi va oggi in pensione con 40 anni di contributi farà parte di questa categoria privilegiata. Il conto, ovviamente, lo paga l’Inps.

Nel 2010 sono state liquidate 125 mila pensioni di questo tipo su circa 180 mila totali. Le altre 55 mila si riferiscono a lavoratori con meno di 40 anni di versamenti e che hanno quindi lasciato l’impiego con il sistema delle quote, ossia il regime introdotto dalla riforma Damiano del 2007 e che permette di andare in pensione con 35 anni di contributi e un’età minima di 60 anni. Dal 2011, in realtà, è già scattato un altro di quegli scalini. I lavoratori dipendenti per fare domanda per la pensione oggi devono raggiungere quota 96, ossia aver almeno compiuto i 60 anni di età e aver versato contributi per 36 anni. Ovviamente al salire dell’età, gli anni di contribuzione possono diminuire, ma la somma deve sempre fare almeno 96.

E dal 2013 dovrà essere 97, il che significa che per lasciare il lavoro bisognerà aver compiuto i 61 anni. Nel futuro prossimo, insomma, i lavoratori potranno andare in pensione ancora relativamente presto. E pure con un bell’assegno. Già, perché oggi il 94% delle pensioni pagate dall’Inps viene liquidato con il metodo retributivo. Un sistema che si applica a tutti i lavoratori che al dicembre del 1995 avevano versato almeno 18 anni di contributi. Questo significa che con 35 anni di anzianità contributiva, la pensione sarà pari al 70% della retribuzione, mentre con 40 anni addirittura all’80%. Cifre irraggiungibili per chi invece dovrà lasciare il lavoro con il contributivo, che ha un approccio completamente diverso. Il metodo è basato sui contributi versati durante l’intera vita assicurativa. Il montante individuale, sul quale poi viene calcolata la pensione, si ottiene sommando i contributi di ciascun anno rivalutati sulla base del tasso annuo di capitalizzazione derivante dalla variazione media quinquennale del Pil determinata dall’Istat. Al montante si applica poi un coefficiente di trasformazione, che varia in funzione dell’età al momento della pensione. Un meccanismo che permette di tenere in ordine i conti dell’Inps anche nel caso in cui il lavoratore decida di lasciare anzitempo la sua occupazione. Chi esce prima avrà un assegno più magro e comunque non più di quanto ha versato nelle casse dell’Istituto di previdenza.

 

L’Inps dunque, dovrà solo restituire al lavoratore quanto da lui versato più gli interessi, in forma di pensione. Ma fin quando sarà in piedi il sistema retributivo, e quindi fino al 2050, avrà il problema di dover pagare a un bel numero di pensionati molti più soldi di quanti ne hanno versato, dovendo finanziare la differenza con i contributi degli altri. È questa la ragione per cui Draghi e Trichet, hanno chiesto di abolire immediatamente l’attuale sistema d’anzianità. Un progetto che, a costo di far travasare la bile a Bossi, è stato descritto nelle sue linee generali nella lettera della Bce, ma in modo decisamente più dettagliato nel documento comune delle associazioni datoriali. Come dovrebbe funzionare? Per prima cosa dovrebbe saltare il principio che bastano 40 anni di contributi per dire addio al lavoro. Tolto di mezzo questo primo ostacolo, l’età minima di pensionamento salirebbe automaticamente a 62 anni per l’anzianità. Ci sarebbe, tuttavia, un regime transitorio per chi matura il requisito dei 40 anni nei prossimi quattro anni. Ci sarebbe inoltre la possibilità di derogare dalla pensione di vecchiaia, ma solo a fronte di una penalizzazione dell’assegno. Non è l’unica ricetta sul tavolo. Una alternativa è quella proposta dal Centro di ricerche Cerp, diretto da Elsa Fornero. La proposta in questo caso prevede un contributivo pro quota per tutti già a partire da gennaio 2012. In questo modo si potrebbe lasciare maggiore flessibilità nell’età di pensionamento, lasciando la libertà di scegliere il momento del ritiro all’interno di una forchetta compresa tra i 63 e i 68 anni. Le ricette, insomma, sono tante. E il governo, nonostante ufficialmente neghi, sta effettuando una serie di simulazioni. Anche il veto leghista non sembra poi così insormontabile. Negli ultimi incontri tra Berlusconi e Bossi se non c’è stata una vera fumata bianca sulla riforma delle pensioni, si può almeno dire che è stata grigia e non nera. Al Carroccio, del resto, sarebbe stato prospettato uno scambio: utilizzare i risparmi della previdenza per finanziare il taglio delle tasse attraverso la delega fiscale. Un modo che permetterebbe anche di non dover mettere mano alle pensioni per decreto, ma in maniera più ragionata legando l’iter della riforma alla delega fiscale. Un lasso di tempo che tornerebbe utile per far digerire alla base la stretta pensionistica con la moneta dei risparmi sul 740. Così a via XX settembre si lavora a diverse ipotesi. Alcune hard, come la cancellazione tout court delle pensioni di anzianità come chiesto dalla Bce. Altre sono soft, come quella di rimpolpare gli scalini Damiano introducendo una quota 100, che in sostanza significherebbe che per dire addio al lavoro sarebbero necessari 60 anni di età e 40 di contributi, oppure 65 anni di età e 35 di contributi. In questo caso si abolirebbero le quote attuali, ma si salverebbe chi iniziato presto a lavorare e può contare su 40 anni di versamenti. Un compromesso tra gli interventisti e chi, come i leghisti, vuole difendere coloro che sono approdati prestissimo al mondo del lavoro. Su questo possibile lodo la società di consulenza Progetica ha elaborato una simulazione. In questo scenario i criteri per andare in pensione diventerebbero due: o 65 anni di età o 40 di contributi. Con quali effetti per i lavoratori? «Le simulazioni mostrano come i profili maggiormente interessati da una possibile riforma in questa direzione sarebbero la maggioranza: in particolare quelli intermedi, con età di inizio contribuzione situate mediamente poco dopo i 20, fino ai 30 ed oltre. Le differenze stimate rispetto all’attuale sistema previdenziale mostrano valori che potrebbero raggiungere i 4 anni di ulteriore differimento del momento di pensionamento», ha spiegato Andrea Carbone di Progetica. Un esempio? Chi è nato nel 1960 e ha iniziato a lavorare a 28 anni con le quote può andare in pensione a 64 anni, mentre con i nuovi requisiti ci andrebbe a 68 anni. Per avere un quadro completo, comunque, basta consultare le tabelle in pagina. Sono le stesse sul tavolo del governo. (riproduzione riservata)