Decidendo su una causa di lavoro intentata da un produttore assicurativo nei confronti di una agenzia di assicurazioni, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione chiarisce la sostanziale differenza con la sentenza n. 24158 pubblicata il 9 settembre 2024
Mario Riccardo Oliviero
IL CASO
Il produttore di una agenzia di assicurazioni chiama in causa i datori di lavoro, proprietari di una agenzia di assicurazioni con regolare mandato da parte di una Compagnia, eccependo la natura formale del contratto di collaborazione sottoscritto e pretendendo il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro, con tutte le conseguenze economiche derivanti da tale individuazione, considerando che, in effetti, l’attività richiesta al collaboratore, sotto le direttive dei titolari dell’agenzia, si era sostanziata nella gestione di tutte le incombenze della sede operativa dell’agenzia assicurativa e che, pertanto, non poteva prevedere soltanto occasionali compensi come agente produttore.
LA SENTENZA
Sia i giudici di primo grado sia giudici di seconde cure rigettavano la domanda attorea, rilevando che le risultanze processuali non consentivano di ravvisare gli indici della subordinazione nel rapporto di lavoro intercorso tra le parti, richiesta dall’attore, vertendosi, invece, in una forma di autonoma collaborazione. Avverso le sentenze di merito, l’attore soccombente ricorreva in Cassazione con due motivi dichiarati dalla Suprema Corte a conclusione del processo, manifestamente infondati, confermando così le sentenze di primo e secondo grado.
LE MOTIVAZIONI
Il ricorrente eccepisce nei confronti dei giudici di merito la violazione e/o la falsa applicazione, dell’art. 246 del Codice di Procedura Civile, sull’interesse nella causa e l’incapacità a testimoniare del teste, a causa della grave inimicizia con il ricorrente e la conseguente attendibilità della prova testimoniale. Si obietta che la Corte territoriale non aveva fornito alcuna motivazione in relazione alla già dedotta incapacità a testimoniare ex art. 246 cpc del teste e alla attendibilità dello stesso, avendo questo un interesse a che le domande del ricorrente si concludessero con un rigetto.
Il motivo è stato ritenuto inammissibile dalla Suprema Corte perché è quanto mai importante precisare che la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando su piani completamente diversi. «Ai sensi dell’art. 246 c. p. c., la capacità a testimoniare dipende dalla presenza di un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre l‘attendibilità del teste afferisce alla veridicità della deposizione in giudizio, che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (come ad esempio: la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità (Cfr. Cass. n. 21239/2019)».
La valutazione della sussistenza o meno dell’interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ., è rimessa, così come quella inerente all’attendibilità dei testi e alla rilevanza delle deposizioni, al giudice di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivata (Cfr. Cass. n. 1188/2007).
© Riproduzione riservata