Il Caso
Autore: Luca Cadamuro
ASSINEWS 367 – Ottobre 2024
L’impiego di apparecchiature non (più) conformi alla direttiva macchine e l’adeguatezza del massimale RCO
Le difficoltà tecnico-assicurative e giuridiche legate ad un infortunio in occasione di lavoro
1. Il caso
Tizio, ventottenne dipendente della società Alfa snc, è deputato allo svolgimento di mansioni di carico, scarico e controllo di un macchinario industriale. Detto macchinario, attivo fin dalla metà degli anni Ottanta, fu sviluppato internamente alla società Alfa snc e viene impiegato per effettuare la pulizia di teli industriali che vengono caricati anualmente da un lato dell’impianto.
Tizio, precedentemente impiegato per svariati anni nel reparto magazzino, viene trasferito e impiegato presso questo macchinario; nel mentre, affiancato da un collega più esperto, prossimo alla quiescenza e deputato anche alla sua formazione, apprende i meccanismi di funzionamento dell’impianto e le procedure di carico, scarico e controllo dello stesso.
Durante il carico del macchinario, il telo rimane incastrato e in tensione, essendo lo stesso trainato all’interno della macchina attraverso due rulli.
Di fronte a questa situazione, Tizio, avvisando il collega, tenta di risolvere il problema avvicinandosi a due rulli; nell’effettuare questa manovra, rimane parzialmente incastrato negli angusti spazi dell’impianto. Ne consegue il risucchio, graduale, di parte del braccio destro. Il collega, nel tentativo di salvare Tizio, si reca presso il quadro elettrico della macchina, ubicato dall’altra parte dell’impianto, a circa dieci metri di distanza. Giunto sul posto, schiaccia il pulsante di spegnimento e l’impianto, dopo circa cinque secondi, si arresta totalmente. In seguito alle gravissime lesioni riportate da Tizio, non limitate allo schiacciamento dell’arto ma estese ad altri distretti anatomici e in ragione dell’esposizione al calore impiegato nel processo produttivo, lo stesso ripoterà un grado di invalidità permanente del 60%.
2. Le indagini e i rilievi tecnico-giuridici
Senza entrare nel merito di tutti gli accertamenti svolti in fase di indagini preliminari, si ritiene utile commentare – prima facie – alcuni aspetti fondamentali della vicenda, posti in luce anche dai tecnici del dipartimento di prevenzione: il macchinario, di concezione propria della società Alfa snc, risale a metà degli anni Ottanta; l’impianto che si sviluppa in orizzontalmente sulla superficie della fabbrica, è composto da una zona dedicata al carico della macchina e da una zona in cui sono ubicati i controlli della stessa (quadro elettrico); dal quadro elettrico è possibile interrompere il funzionamento dell’impianto che, tuttavia, non è immediato. Oltre a ciò, benché a complemento dell’esposizione di cui sopra, s’evidenzia come Tizio, notando il problema all’interno dell’impianto, si avvicina allo stesso mentre gli ingranaggi risultano ancora attivi, senza che il collega – dotato di una maggiore anzianità professionale e deputato alla formazione e all’addestramento del dipendente più giovane – abbia alcunché a ridire o ad osservare nel merito. Premesso ciò, si osserva che, sul piano tecnico e progettuale, il macchinario al quale Tizio è destinato presenta importanti irregolarità. La prima e più rilevante irregolarità è data dall’assenza di un cd. “fungo” (pulsante di colore rosso impiegato per interrompere il funzionamento di una macchina) in prossimità della di carico. Nel settore industriale e della progettazione, assume fondamentale rilievo la cd. direttiva macchine (nella sua versione più recente Direttiva 2006/42/CE) che, regolando la specifica fattispecie riguardante l’arresto di un impianto, prevede – all’art. 1.2.4.3 – la disciplina generale per l’arresto di emergenza.
In base alla succitata direttiva, la macchina deve essere munita di uno o più dispositivi di arresto di emergenza che consentano di evitare situazioni di pericolo che rischino di prodursi nell’imminenza o che si stiano già producendo. Non solo: la norma impone che i dispositivi di comando debbano essere chiaramente individuabili, ben visibili e rapidamente accessibili, il tutto in coerenza di un fondamentale e ovvio criterio di efficienza ergonomica; inoltre, il sistema di arresto di emergenza deve provocare l’arresto del processo pericoloso nel tempo più breve possibile. Ad integrazione della disciplina Ue, si è sviluppata la norma tecnico-progettuale EN ISO 13850, non cogente ma certamente significativa quale leitmotiv ermeneutico. La stessa, prevedendo che la funzione di arresto di emergenza debba provocare il blocco del processo pericoloso nel tempo più breve possibile, precisa altresì che la finalità dell’arresta di emergenza è quello di evitare situazioni derivanti dal comportamento – evidentemente imprudente o errato – di persone. La questione si estende anche al disposto di cui all’art. 71, c. 2 lett. b) del d.lgs. 81/2008 e, proprio con rispetto a questa disposizione, la giurisprudenza è più volte entrate in argomento, affrontando casi in cui i mezzi o i macchinari messi a disposizione del dipendente non erano adeguati ai principi enunciati dalla direttiva macchine.
In un recente arresto, la Corte di cassazione (Cassazione penale, sez. III, n. 32703/2023) è stata chiamata a conoscere di un caso riguardante un escavatore privo di sistema antiribaltamento, nonostante la macchina in questione fosse regolarmente impiegata in una zona caratterizzata da una ripida scarpata, condizione che – con ogni evidenza – rileva causalmente con la vicenda sottoposta ai giudici di legittimità. Il provvedimento indica come il “regime giuridico concernente l’escavatore, la cui conformità alla normativa previgente alla cd. prima direttiva macchine ne consentiva la commercializzazione fino al 1996, pur se privo delle dotazioni di sicurezza introdotte dal recepimento della prima direttiva”; da ciò e considerando le specifiche condizioni di lavoro nel novero delle quali operava l’escavatore e l’escavatorista, “l’importanza di dotare le macchine di sistemi di ribaltamento era nota da ormai venti anni, sicché la messa a disposizione di un escavatore non più rispondente ai requisiti tecnici era avvenuta nella piena consapevolezza del pericolo di ribaltamento”. Pertanto, “l’obbligo del datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori macchinari provvisti di blocco automatico atto a impedire di entrare in contatto con le parti in movimento è configurabile anche in relazione alle attrezzature acquistate prima dell’entrata in vigore della direttiva macchine del 1996”.
Se ne ricava altresì una massima, in base alla quale “l’utilizzo dell’escavatore ben poteva proseguire per lavori non connotati da pericolo di ribaltamento, come del resto esplicitamente confermato dalla testimonianza di uno degli impiegati dell’azienda, il quale aveva riferito della disponibilità di altri escavatori dello stesso tipo, impiegati non già in cave di pietra, ma in lavori stradali o comunque privi di pericoli di ribaltamento”. Con ciò e ritornando alla disamina della nostra vertenza, considerando l’assoluta assenza di aderenza progettuale tra il macchinario manovrato da Tizio e i principi prescritti dalla direttiva macchine, appare evidente la condotta illecita del datore di lavoro. V’è di più: considerando le caratteristiche progettuali, è verosimile che il macchinario non fosse conforme nemmeno alle disposizioni tecniche vigenti al momento dell’introduzione in servizio. Si ricorda anche che la illiceità della condotta tenuta dal datore di lavoro è ricavabile anche sul piano logico-induttivo. Tanto emerge dalla lettura dell’art. 15, c. 1, lett. c) del d.lgs. 81/2008 che ricomprende, tra le misure generali di tutela della salute e della sicurezza anche l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite sulla scorta del progresso tecnico. Il citato articolo, in combinato disposto con la previsione, di carattere generale, di cui all’art. 2087 c.c., costringe il datore di lavoro ad un adeguamento costante della propria organizzazione produttiva, allineandola ai più recenti ed adeguati criteri di sicurezza vigenti al momento.
Pertanto, l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro un obbligo generale di diligenza che sanziona, sul piano civilistico, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare, in relazione alle effettive modalità del lavoro, l’integrità psicofisica del lavoratore, in considerazione – altresì – delle possibilità di conoscenza di tutti quegli elementi che, in relazione alla fattispecie concreta, possono incidere sulla sicurezza (Cass. civ., sez. lav., 1072/2011), anche sulla scorta – in questo caso – delle evidenze tecnico-progettuali ricavabili dalla direttiva macchine e, in termini di massima diligenza, ad abundantiam, finanche dalle norme EN ISO, certamente conosciute e ampiamente condivise da disegnatori e progettisti. Infine, pare d’uopo un breve cenno alla figura del collega che affiancava Tizio: il medesimo, deputato alla formazione professionale di Tizio e, quindi, anche alla supervisione della modalità con la quale il dipendente meno esperto si approccia alla macchina per risolvere il problema rilevato, ricopriva la qualifica di preposto.
Tale figura, le cui caratteristiche sono indicate dall’art. 2, lett. e) del d.lgs. 81/2008, è la “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa” Nel caso di specie, il collega non impediva a Tizio, ancora in fase di addestramento, di avvicinarsi al macchinario mentre gli ingranaggi erano ancora in tensione. Tale condotta, certamente contraria a qualsivoglia disposizione tecnica in materia di sicurezza negli ambienti di lavoro, è altresì epifenomeno della cd. tolleranza aziendale delle condotte pericolose che non dovrebbero poter prosperare laddove il datore di lavoro, titolare anche di specifici poteri disciplinari, abbia implementato procedure di sicurezza idonee e abbia provveduto alla corretta formazione ed informazione in favore di tutti i dipendenti.
3. Il problema della quantificazione del danno (rectius: dei danni) e la capienza del massimale
Come accennato, la vicenda interessa un giovanissimo dipendente, di appena 28 anni. Tale peculiarità assume fondamentale rilievo all’atto della quantificazione del danno civilistico, ma anche della rendita INAIL. Emerge, a questo punto, un nuovo e fondamentale argomento da considerare ogni volta in cui si affronta un infortunio sul lavoro dal quale emerge una responsabilità in capo al datore di lavoro: trattasi della concorrenza tra danno civilistico e rendita INAIL. Infatti, come noto, il fatto (infortunio) può comportare, in questi casi, una cd. pluriqualificazione, intendendosi sotto questo concetto una determinata fattispecie che, per le proprie peculiarità, può trovare due differenti qualificazioni giuridiche. Le due differenti qualificazioni sono – per l’appunto – quella risarcitoria di matrice civilistica e quella indennitaria, legata alle erogazioni INAIL. Senza entrare nel merito delle specifiche modalità di computo dei due danni, sia sufficiente considerare che, nel caso di specie, il danno civilistico di Tizio ammonta ad oltre 700.000,00 €; più ridotta è, per contro, la rendita INAIL.
Il tutto, a fronte di un massimale garantito in polizza di 1.000.000,00 €. Ricordiamo che l’erogazione INAIL, regolata da un criterio indennitario il cui ammontare massimo è determinato dalla tabella allegata al DPR 1165/1965, risponde a finalità indennitarie, teleologicamente distinte da quelle perseguite dal risarcimento computato e liquidato sulla scorta di parametri civilistici. Stante il distinguo funzionale esposto, è opportuno rimarcare che l’ordinamento non ammette il cumulo tra le due forme di compensazione in favore del dipendente danneggiato. Infatti, i pagamenti effettuati dall’assicuratore sociale riducono il credito risarcitorio vantato dalla vittima del fatto illecito nei confronti del responsabile, quando l’indennizzo abbia lo scopo di ristorare il medesimo pregiudizio del quale il danneggiato chiede di essere risarcito. Ciò posto, e considerata la diversità strutturale e funzionale dell’indennizzo corrisposto dall’assicuratore sociale nel caso di infortunio rispetto al risarcimento civilistico del danno da lesione della salute, il criterio più coerente al detto principio per calcolare il credito risarcitorio residuo del danneggiato nei confronti del terzo responsabile (e cioè il c.d. danno differenziale) non è certo quello di sottrarre semplicemente per l’indennizzo INAIL dal credito risarcitorio nel suo complesso.
Tuttavia, non pare corretto nemmeno procedere secondo il criterio delle ccdd. “poste omogenee” di danno. Per contro, è corretto sottrarre l’indennizzo INAIL dal credito risarcitorio solo quando l’uno e l’altro siano stati destinati a ristorare pregiudizi identici (criterio per “poste identiche” e non per “poste omogenee” di danno). In questo senso, in una recente pronuncia (Cass. civ., sez. III, 30293/2023) sono state messe in luce le prestazioni erogate da INAIL in caso di sinistro non mortale: ristoro del danno biologico permanente; ristoro del danno (patrimoniale) da perdita della capacità di lavoro; indennità giornaliera per il periodo di assenza dal lavoro; spese di cura, di riabilitazione e per gli apparecchi protesici. Alla luce di ciò, è d’obbligo evidenziare che, se per il lavoratore danneggiato vige la regola del danno differenziale, il datore di lavoro è esposto sia alle richieste risarcitorie del dipendente che alle azioni di regresso da parte di INAIL in tutti quei casi in cui emerga una responsabilità in capo al datore di lavoro per il sinistro che giustificava le erogazioni da parte dell’istituto.
Con ciò e ritornando a commentare il massimale di 1.000.000,00 € garantito dalla polizza di Alfa snc, appare evidente che lo stesso, in caso di sinistro mortale e con la partecipazione al risarcimento anche dei congiunti della vittima, sarebbe stato, con ogni probabilità, del tutto insufficiente a far fronte alle richieste tutte. Infatti, i criteri impiegati per il computo del danno da perdita del rapporto parentale, impongono una ponderazione, oggi (prevalentemente) aritmetica, dei rapporti tra de cuius e superstiti. È di tutta evidenza che, in presenza di un padre di famiglia sposato o convivente e genitore di due figli minori, con madre o padre ancora in vita, il computo del danno avrebbe cagionato il possibile superamento del massimale garantito.
4. La somma assicurata sia adeguata al numero di dipendenti, al rischio al quale sono esposti e al cd. worst case scenario
Accade spesso che le somme assicurate siano concordate senza una specifica e più attenta valutazione, in concreto, del rischio. Tale approccio, del tutto incompatibile con una concezione dell’assicurazione sviluppata in seno alle buone pratiche introdotte dal risk management, rischia di pregiudicare gravemente il datore di lavoro. Pertanto, come si va sviluppando il riscorso al perito estimatore per quantificare i capitali da assicurare per il rischio property, al pari potrà essere utile richiedere una valutazione in ordine al rischio patrimoniale derivante dalla quantificazione di un sinistro – ad esempio – mortale. Con ciò, ipotizzare un worst case scenario per la propria società, potrà essere l’approccio corretto per modulare il massimale della polizza ma anche per conoscere in anticipo le procedure da attuare in caso di infortunio sul lavoro.
Infatti, tali eventi che spesso possono svilupparsi in procedimenti giudiziari richiedono non solo l’ingaggio di un avvocato penalista e di un giuslavorista ma anche di periti specializzati nel settore HSE che, sebbene in espansione, non possono dirsi numerosi. Infine, sia permesso evidenziare come molte imprese, soprattutto di piccole e piccolissime dimensioni, sono prive di copertura RCO ovvero ne sono provviste solo per esigenze contingenti legate, ad esempio, alla partecipazione a bandi che richiedono la sottoscrizione di questa garanzia. Abborrando totalmente la pratica della sottoscrizione imposta dalla contingenza, si auspica che il legislatore – al pari di quanto fatto per la copertura assicurativa obbligatoria a garanzia dei rischi CAT-NAT – prenda posizione sul tema, introducendo l’obbligatorietà della copertura RCO con massimali minimi non derogabili.
© Riproduzione riservata