CONTESTI OPERATIVI E RESPONSABILITÀ SANITARIA

a cura di M. Cadamuro Morgante*, G. Pavan**, S. Muhameti***, G. Canal****
ASSINEWS 356 – ottobre 2023

Il fatto

In un ospedale di rete (spoke) veniva ricoverato un giovane affetto da cisti pilonidale per essere sottoposto ad intervento chirurgico di resezione con metodo “chiuso”. Tale approccio terapeutico era stato concordato dal medico chirurgo con il giovane ed i suoi genitori in sede di visita ambulatoriale preoperatoria in ragione del fatto che la patologia di cui era portatore per sede anatomica e quadro clinico, avrebbe beneficiato di questa tecnica chirurgica anziché di quella “aperta”, perché meno invasiva e quindi a guarigione più rapida. Il medico aveva altresì spiegato che la decisione finale sul metodo da seguire sarebbe stata comunque presa in sala operatoria in sede di intervento chirurgico, dopo valutazione mediante iniezione con blu di metilene per verificare sia la profondità, sia la eventuale fistolizzazione della cisti non altrimenti visibile, situazioni che rendono sconsigliabile il metodo chiuso in quanto può portare ad una possibile recidiva. Al termine dell’intervento chirurgico il giovane veniva ricondotto in reparto, dove apprendeva che il chirurgo che lo aveva operato aveva deciso – durante la seduta operatoria – di modificare l’intervento da “chiuso” ad “aperto”.

Nella stessa stanza di degenza del giovane era allettato un ragazzo suo coetaneo anch’egli sottoposto ad un intervento chirurgico di cisti pilonidale nel corso della mattinata, che invece di essere stato eseguito con metodo di tipo “aperto”, come da programma, era stato effettuato con il metodo “chiuso”. Visto che per coincidenza i due ragazzi avevano lo stesso nome di battesimo e ad entrambi era stato modificato il tipo di intervento invertendo l’approccio terapeutico rispetto a quanto programmato, veniva chiesto un colloquio al medico chirurgo. Quest’ultimo ammettendo lo sbaglio commesso, spiegava loro che era stato commesso un errore di identificazione in sala operatoria che aveva portato ad uno scambio di intervento chirurgico tra i due giovani. In buona sostanza, il giovane a cui era stato eseguito l’intervento di tipo “aperto”, anziché quello “chiuso” come da programma, ha avuto un percorso di convalescenza più lungo rispetto a quanto previsto, perché la ferita chirurgica è guarita lentamente richiedendo numerose medicazioni e controlli ambulatoriali, con la conseguenza che il giovane ha perso alcuni mesi di scuola ed ha dovuto interrompere l’attività agonistica sportiva.

Il coetaneo al quale è stato invece eseguito l’intervento di tipo “chiuso”, anziché “aperto” come da programma, ha subito una recidiva della malattia per cui è stato costretto ad affrontare un ulteriore intervento chirurgico, questa volta corretto per la cura definitiva della propria patologia. Ad una verifica dei fatti effettuata dalla direzione medica ospedaliera risultava che il giovane era stato operato non dal medico che aveva proposto l’intervento di tipo “chiuso”, ma da un altro collega presente in sala operatoria che all’ultimo istante aveva preso il suo posto ed aveva eseguito l’intervento con tecnica di tipo “aperto”, convinto di operare il coetaneo che era in programma con tecnica “aperta”. I due giovani avevano lo stesso nome di battesimo e gli interventi erano stati programmati nello stesso giorno e nella stessa sala operatoria ancorché ad orari differenti.

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