L’Europa dovrà pagare per l’energia una bolletta annuale aggiuntiva di 450 miliardi, secondo una stima di Unicredit. Questo valore corrisponde all’aumento di gas e petrolio rispetto alla media dei cinque anni prima della pandemia. Si tratta di un’ipotesi prudente, perché considera un rialzo del petrolio a 100 dollari al barile (con parità del dollaro rispetto all’euro) e del gas a 100 euro per Mwh (cinque volte il livello degli ultimi anni, ma meno della metà di quello attuale). I numeri danno un’idea della sfida per l’Europa, che verserà ogni anno una tassa aggiuntiva di oltre il 3% del pil ai Paesi produttori di energia e così dovrà convivere con una forte frenata economica e un’alta inflazione.

Le autorità europee devono ora pensare alle migliori politiche per resistere in questo scenario. Governi e Bce dovrebbero collaborare come durante la pandemia, anche se per ragioni diverse rispetto ad allora. Il ruolo di maggior rilievo spetta oggi alle autorità fiscali, soprattutto a livello Ue. Ma i provvedimenti adottati sinora sono insufficienti. Non ci sarà un nuovo Recovery Fund: un segnale del ritorno delle divergenze dei Paesi dopo il Covid. I governi stanno diversificando i fornitori di materie prime (ognuno per conto proprio) e stanno indirizzando gli extra-profitti delle società energetiche alle fasce più colpite. L’Ue sta studiando (con colpevole ritardo ed esiti tutti da verificare) un price cap sul gas, sistemi per evitare crisi di liquidità sui derivati e meccanismi per scollegare i prezzi del gas da quelli dell’elettricità. Una parte centrale del compito dei governi riguarda gli investimenti nell’energia, per esempio attraverso rigassificatori e fonti rinnovabili. Ma su questo fronte gli importi investiti saranno inferiori alle necessità, considerando i vincoli di bilancio.

Se i governi stanno facendo ancora poco in modo congiunto, la politica monetaria invece sta facendo troppo. La Bce ha appena varato un rialzo dei tassi dello 0,75%, il maggiore della sua storia. Secondo indiscrezioni fatte trapelare sui media internazionali, la stessa manovra potrebbe essere ripetuta a ottobre. All’inizio del prossimo mese, sempre secondo le indiscrezioni, partirebbe anche la discussione per ridurre il bilancio attraverso il calo dei reinvestimenti dei titoli scaduti nei programmi di acquisto. Da fine 2021 il costo di finanziamento di governi, imprese e famiglie è salito in modo significativo e ulteriori aumenti ci saranno nei prossimi mesi. Così il rischio di bloccare del tutto l’economia è alto.

Finora la più ottimista è stata proprio la Bce, che ha escluso nelle previsioni di base la recessione, limitandosi a una stagnazione. Francoforte è accusata di aver sbagliato stime di crescita e inflazione in passato, ma nessuno poteva immaginare la guerra. Tutti gli analisti del resto si sono sbagliati. Adesso invece gran parte degli economisti prevede la recessione, ma non la Bce. Perciò l’errore di Francoforte sulle stime sarebbe più grave ora. Peraltro Lagarde ha già detto che alcune condizioni dello scenario più negativo (che invece prevede un calo del pil dello 0,9% nel 2023) si sono già avverate.

Berenberg ha indicato tre motivi per cui la banca centrale si sbaglia sulla recessione. Innanzitutto per la stretta in arrivo sui consumi: le bollette più alte lasceranno meno denaro alle famiglie, che saranno poco propense a intaccare i risparmi e preferiranno ridurre le spese. Perciò i consumi potrebbero calare del 3% tra metà 2022 e il primo trimestre 2023.

In secondo luogo, l’economia sarà rallentata dai tagli nella produzione delle imprese, schiacciate dai maggiori costi dell’energia e dall’impossibilità di trasferirli ai consumatori. Per Berenberg la maggior parte delle aziende Ue eviterà quest’inverno un razionamento del gas, ma ne farà uno de facto a causa del prezzo.

Il terzo motivo è che la frenata europea sarà accompagnata da quella in altre aree geografiche: anche gli Usa potrebbero finire in recessione e la Cina è intrappolata nella strategia zero Covid. Per queste ragioni Berenberg prevede una caduta del pil dell’1,3% l’anno prossimo (contro il +0,9% della Bce) e ritiene che la banca centrale sarà obbligata a fermare i rialzi a inizio 2023. Questa attesa è condivisa dalla maggior parte degli economisti.

In questo quadro molti sono rimasti stupefatti dall’obiettivo indicato dalla Bce di «ridurre la domanda» nonostante non ci sia alcun eccesso nell’Eurozona e il pil sia ancora attorno al livello del 2019. Anche l’ex capo-economista della banca centrale Peter Praet si è detto sorpreso. Inoltre la Bce dovrebbe causare una forte deflazione dei beni non energetici per compensare gli alti prezzi dell’energia, non influenzabili dalla banca centrale. Questa cura ucciderebbe il malato.

Mentre nessun economista nega l’effetto negativo che la Bce può avere sulla crescita con strette eccessive, molti mettono in discussione l’impatto sull’inflazione, proprio perché il carovita è dovuto in gran parte alle commodity, come ha riconosciuto Lagarde. La presidente ha aggiunto che il mercato del lavoro dell’Eurozona non è surriscaldato, a differenza di quello Usa. Ma questi elementi non sono stati considerati nel rialzo dello 0,75%, nonostante Francoforte si dica data-dependent. «È ancora difficile capire come la Bce possa far scendere l’inflazione che è principalmente guidata da fattori legati all’offerta», ha osservato Carsten Brzeski di Ing. Per uscire da uno scenario molto complesso servirebbero nei prossimi mesi politiche monetarie e fiscali a livello europeo più attente alle cause della crisi e agli effetti dei propri interventi. (riproduzione riservata)
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