Luca Gualtieri
La battaglia delle Generali non sarà solo una partita cruciale per gli equilibri nella Galassia del Nord, ma anche un banco di prova per la corporate governance italiana. Sul tavolo c’è l’efficacia del sistema monistico che negli ultimi anni è stato abbracciato da molte grandi società e che fa del cda il mediatore tra le istanze degli azionisti. Ma per Stefano Caselli, prorettore per gli Affari Internazionali della Bocconi e esperto di intermediari finanziari, a Trieste un compromesso è ancora possibile e il board lavorerà per raggiungerlo.

Domanda. Caselli, che problematiche di governance solleva la vicenda Generali?

Risposta. Pur senza entrare nel merito delle diverse posizioni espresse dai soci, il tema centrale mi sembra il ruolo giocato dal cda uscente con la presentazione dalla lista. Si tratta di una prassi diffusa a livello internazionale che, se l’indipendenza degli amministratori viene utilizzata al meglio, ha il pregio di ricomporre le divergenze tra gli azionisti. Sia chiaro: in una grande società è fisiologico che i soci esprimano visioni diverse, ma il ruolo del board deve proprio essere quello di compiere una mediazione attraverso la lista. L’idea che mi sono fatto è che in Generali ci sia ancora spazio per trovare una composizione di questo tipo.

D. Tra i soci di Generali e di Mediobanca ci sono famiglie e imprenditori. Primo tra tutti Leonardo Del Vecchio. Un’anomalia in un sistema finanziario europeo dominato dal modello della public company?

R. Non sarei così drastico. Il 40% degli azionisti di Generali sono investitori istituzionali con un marcato profilo internazionale e lo stesso vale per Mediobanca. In aggiunta la normativa europea prevede che anche famiglie e imprenditori possano detenere partecipazioni rilevanti nelle istituzioni finanziarie, purché non abbiano posizioni di controllo. Non dimentichiamo che la salita di Del Vecchio in Mediobanca è stata autorizzata dall’autorità di vigilanza. D’altra parte non abbiamo a che fare con un piccolo imprenditore, ma con una figura di grandissima statura che ha dato vita a un gruppo di dimensioni globali. Una figura che per giunta si è impegnata a non influenzare la governance e la strategia di Mediobanca.

D. Non trova però singolare che oggi Del Vecchio sia un investitore silenzioso in Mediobanca e un attivista nella partecipata Generali?

R. Se Del Vecchio volesse imporre unilateralmente la propria strategia sulle Generali, ciò costituirebbe certamente un’anomalia per un intermediario di quelle dimensioni, ma per ora osservo solo una dialettica tra gli azionisti. Abbiamo bisogno di tempo per capire la possibile evoluzione della vicenda.

D. Nel caso Generali è stato sollevato il problema dell’indipendenza degli amministratori. Alla qualifica formale non sempre corrisponde un’indipendenza fattuale. A suo avviso quanto è grave il problema In Italia?

R. È stato già stato fatto molto per garantire queste caratteristiche, ma vedo ancora due temi per alzare l’asticella: il primo è evitare che, oltre a indossare la maglietta della società, l’amministratore tenga anche la maglietta di provenienza. In secondo luogo nell’individuazione dei profili occorre trovare un punto equilibrio tra indipendenza e esperienza. Spesso la ricerca dell’indipendenza a tutti i costi porta nei board professionisti capaci, ma non attrezzati per quel ruolo.

D. Una governance litigiosa può danneggiare una società?

R. L’evidenza scientifica non c’è o, meglio, c’è solo quando il conflitto ha già debordato. Di sicuro però la litigiosità è molto dannosa perché fa perdere tanto tempo, non contribuisce allo sviluppo della società e toglie energie al ceo. Ai cda serve dialettica, non litigiosità.

D. A parte i casi che abbiamo menzionato, le grandi istituzioni finanziarie italiane si stanno trasformando in public company. Un’evoluzione virtuosa?

R. Più che altro inevitabile. Le istituzioni finanziarie sono un bene pubblico e hanno raggiunto dimensioni tali che possono appartenere soltanto al mercato. Specie alla luce degli eventuali fabbisogni di capitale. Tutto questo dà ancora più responsabilità e importanza al cda. Voglio però osservare che in Italia è stato liquidato troppo alla svelta il sistema dualistico. Forse nelle public company una riflessione su quel modello andrebbe riaperta.

D. Al contrario oggi, da Intesa a Unicredit fino a Mediobanca, si è imposto il modello monistico che ha molti sostenitori ma anche qualche critico. Qual è la sua posizione?

R. Le luci sono molte a partire dal valore di sintesi che può avere la lista del cda. Tra le ombre c’è il rischio che il board approfitti del sistema per perpetuare la propria presenza al vertice della società. Ecco perché un ricambio costante delle candidature è sempre auspicabile. L’altro punto critico si presenta in caso di contrapposizioni tra il cda e gli azionisti. Questi attriti possono minare l’autorevolezza del vertice che finisce per perdere la propria funzione di mediatore e diventare parte attiva dello scontro. Quando si presentano situazioni di questo genere, la lista non andrebbe presentata e il board dovrebbe lasciare spazio agli azionisti.

D. Ancora una volta, uno scenario che potrebbe verificarsi in Generali?

R. Come dicevo, in Generali vedo spazio per una convergenza tra le diverse visioni in campo. È mia convinzione che questo obiettivo possa essere raggiunto.

D. Si sta aprendo una nuova stagione di consolidamento per il settore bancario. Quali saranno i riflessi sui modelli di governance?

R. Il modello di public company si imporrà in via quasi definitiva. Più le istituzioni finanziarie diventano grandi e più hanno bisogno di capitale, che può essere portato solo da una pluralità di investitori. Prevedo anche un’attenzione sempre più intensa sui requisiti, non solo formali ma anche sostanziali, degli amministratori in termini di competenze e diversity. Ciò renderà sempre più cruciale il ruolo dei cda, che saranno chiamati a interfacciarsi costantemente con le autorità di vigilanza. In particolare, sarà decisiva la figura del presidente che non avrà solo un ruolo simbolico ma sempre di più dovrà essere il primus inter pares e un interlocutore di altissimo livello per le autorità di vigilanza. Infine, gioverebbe una riconsiderazione del dualistico, che abbiamo accantonato in fretta e con una certa dose di pressappochismo. (riproduzione riservata)
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