Governance Il capitalismo famigliare resiste, però l’azionariato diffuso è destinato ad affermarsi. I patti di sindacato? Appartengono al passato Il dossier Generali? Decisivo preservare l’autonomia del management

Il capitalismo famigliare non è certo scomparso. Al contrario, sembra ancora godere di buona salute non solo nelle aziende manifatturiere ma anche in alcune banche e assicurazioni. Per affrontare le sfide del futuro però le quotate italiane avranno bisogno di assetti proprietari più fluidi che vadano nella direzione della public company e si avvalgono delle risorse messe a disposizione dagli investitori istituzionali. Ne è convinto Piergaetano Marchetti, non solo uno dei maggiori esperti in materia di corporate governance ma anche protagonista di alcune delle partite più rilevanti nella storia della finanza italiana. Ultima vicenda in ordine di tempo che sta vedendo coinvolto il suo studio è la caldissima partita Generali.

Domanda. Professor Marchetti, le cronache di queste settimane riportano sotto i riflettori gli assetti di governance delle quotate italiane. In questi ambiti quali sono stati i cambiamenti più significativi degli ultimi anni?

Risposta. Osservo due tendenze. Da un lato si è allargato l’impiego delle azioni a voto a multiplo, volte a premiare la fedeltà degli azionisti. Oggi il fenomeno riguarda circa settanta quotate, anche se in termini di capitalizzazione il peso è per ora modesto. La seconda tendenza è la diffusione delle liste promosse dai cda uscenti, una prassi adottata da una quindicina di società che, in termini di capitalizzazione, rappresentano complessivamente la metà della borsa italiana. Mi sembra che denominatore comune di questi due fenomeni sia una esigenza di stabilità degli assetti azionari. Una funzione in passato svolta dalle piramidi societarie o dai patti di sindacato che oggi appaiono in declino. Malgrado questi cambiamenti comunque, i dati sulle strutture proprietarie diffusi annualmente dalla Consob non evidenziano una diminuzione significativa del numero di società controllate di fatto o di diritto.

D. Il modello della public company insomma continua ad aver un peso limitato nella borsa italiana?

R. I dati ci dicono che non si tratta di un fenomeno in crescita. Il controllo delle quotate italiane rimane concentrato nelle mani di pochi azionisti e questo vale soprattutto per le medie imprese. Le uniche eccezioni si trovano nel settore finanziario, in particolare nelle grandi banche, dove negli ultimi anni la struttura del capitale è diventata molto fluida. Al di là delle differenze negli assetti proprietari però c’è una tendenza generalizzata a tenere sempre più conto delle preferenze del mercato nelle scelte strategiche e nella formazione dei consigli di amministrazione. Basti pensare alla rilevanza che hanno assunto le politiche di engagement nell’ambito delle quali gli investitori istituzionali possono chiedere di essere ascoltati dagli amministratori per esprimere osservazioni e proposte.

D. Certamente il livello di attenzione del mercato si è alzato e il confronto tra fondi e cda assume spesso toni accesi. Una dialettica virtuosa?

R. Per prima cosa occorre dire che si tratta di una dialettica ancora alle battute iniziali. Capita per esempio che società e investitori abbiano opinioni differenti su come gestire le politiche di engagement. Un esempio? Uno dei punti in discussione in questo periodo è se i fondi possano colloquiare con singoli amministratori o se debbano relazionarsi necessariamente soltanto con il presidente e con l’amministratore delegato. Sia Assonime che Assogestioni sono al lavoro per sciogliere questo genere di dubbi e predisporre regole, che mi auguro siano largamente convergenti, comuni per le società. Certamente però la collaborazione sempre più stretta tra mercato e vertici aziendali appare ormai un trend dominante nel mondo della finanza. Soprattutto in relazione a tematiche oggi particolarmente sensibili per gli investitori istituzionali come le remunerazioni, le scelte strategiche e le politiche Esg. Su questi e altri argomenti il momento di confronto ormai non è quasi più l’assemblea, ma il dialogo con i grandi soci.

D. Eppure non tutte le grandi banche italiane si stanno evolvendo verso il modello della public company. Alcune al contrario hanno compiuto un’inversione di tendenza e oggi hanno un privato come azionista di maggioranza relativa, come Leonardo Del Vecchio nel caso Mediobanca. Si può parlare di un’anomalia?

R. Non credo che si tratti di un’anomalia visto che in altri paesi europei ci sono situazioni simili. Quello che certamente osserviamo nel settore finanziario è che il regolatore è molto attento sia alle soglie di capitale raggiunte che alla qualità dei profili. Senza contare il divieto ad assumere posizioni di controllo negli assetti di governance dell’intermediario.

D. A proposito di Mediobanca, qual è il suo punto sulla vicenda Generali di cui in questi giorni ci parlano le cronache finanziarie?

R. Non voglio entrare nel merito della vicenda. Tutti però auspichiamo che gli assetti delle grandi imprese finanziarie siano tali da premiare l’autonomia e la qualità del management.

D. In quella e in altre partite un tema molto dibattuto è l’indipendenza degli amministratori. Malgrado i paletti fissati dalla normativa, qualcuno ritiene che nei board l’indipendenza sia spesso un requisito più formale che sostanziale. Qual è la sua opinione a riguardo?

R. Non sarei così drastico. I dati ci dicono che negli ultimi anni in Italia il numero medio di consiglieri indipendenti è andato crescendo ben oltre i limiti previsti dalla legge. Semmai occorre chiedersi se l’indipendenza risulti sempre abbinata alla professionalità e sia in grado di portare competenze preziose all’interno dei board. Oggi più che mai i cda hanno bisogno di queste competenze per affrontare le sfide strategiche, tecnologiche e ambientali che le grandi aziende devono fronteggiare. Ecco perché questa declinazione precisa dell’indipendenza andrebbe presidiata maggiormente.

D. Tornando all’evoluzione della governance nelle grandi società, si è discusso a lungo su quale sia il modello ideale e in questi ultimi anni la novità è stata il sistema monistico. Che bilancio se ne può fare?

R. Per la verità sono poche le società italiane che hanno scelto il monistico e l’unica di grandi dimensioni è Intesa Sanpaolo. Detto questo, sul modello di governance ideale si è discusso a lungo in ambienti accademici e finanziari. Almeno da quando nel 2003 la normativa ha permesso alle società di scegliere tra il sistema tradizionale, il duale e per l’appunto il monistico. Molti a quel tempo erano convinti che quest’ultimo fosse il modello migliore perché l’organo di controllo è interno al board e dunque può svolgere il proprio ruolo a stretto contatto con gli amministratori. In realtà le adesioni sono state limitate, così come è accaduto anche per il duale che è servito per lo più per gestire operazioni di consolidamento. Il bilancio che oggi si può fare è che entrambi questi modelli hanno avuto poca fortuna in Italia e che la maggioranza delle società preferisce conservare il tradizionale.

D. Quanti di questi cambiamenti hanno interessato anche il mondo della media azienda?

R. I dati ci dicono che sinora gli assetti di controllo sono cambiati relativamente poco, specialmente tra le medie imprese. Semmai strumenti nuovi come le azioni a voto multiplo hanno sostituito le vecchie piramidi e i patti di sindacato nel garantire la stabilità della struttura proprietaria.

D. Quindi il capitalismo famigliare gode ancora di buona salute?

R. Almeno sinora, ma mi aspetto che la svolta sia vicina. Le medie imprese sono un patrimonio importante per l’Italia ma la loro crescita può passare solo attraverso una presenza sempre più stabile degli investitori istituzionali a fianco o al posto degli azionisti storici. In quest’ottica ritengo che il modello della public company abbia ampi margini di crescita e sia in molti casi una strada obbligata per la crescita della società. L’alternativa è restare al palo. (riproduzione riservata)

Fonte: