VIA LIBERA ALL’OBBLIGO DI CERTIFICAZIONE IN AZIENDA. E QUESTO NON ESCLUDE LE RESPONSABILITÀ
di Daniele Cirioli
L’obbligo del green pass per lavorare non esclude le responsabilità a carico dei datori di lavoro riguardo alla sicurezza nei luoghi di lavoro, perché essere in possesso del green pass non vuol dire necessariamente «essere vaccinato». Se il vaccino è stato o viene individuato quale misura di prevenzione e protezione (operazione da fare con medico competente e rappresentanti dei lavoratori tramite la «valutazione rischi» e messa nero su bianco nel relativo documento Dvr), pertanto, è solo il «certificato di vaccinazione o guarigione da Covid» a consentire ai lavoratori l’accesso al lavoro. Un esempio è il green pass a seguito di tamponi: garantisce che il lavoratore non è contagioso, ma non esclude che possa restare contagiato. Nel secondo caso, il datore di lavoro ne risulterebbe responsabile per aver esposto il lavoratore al rischio (consentendogli di lavorare) privo delle precauzioni stabilite dal Dvr (il «vaccino»).

Una «patente» per lavorare. Il Covid-19 ha diviso il mondo del lavoro nella discussione se sia o meno possibile o necessario obbligare i lavoratori a dotarsi di green pass per andare al lavoro. Il governo ha deciso e, con il decreto legge approvato giovedì, ha esteso l’obbligo del green pass al settore del lavoro privato, quale «patente di lavoro», dopo che in quello pubblico era in parte già vigente ed è stato esteso con lo stesso provvedimento.

Si parte da metà ottobre. Il nuovo obbligo sarà operativo a partire dal 15 ottobre e fino al 31 dicembre, che è l’attuale termine di cessazione dello stato di emergenza per la pandemia (non è escluso, pertanto, che l’obbligo possa essere prorogato, qualora dovesse esserci una proroga anche dello stato di emergenza). Stando alla bozza di decreto legge, chi lavora ha «l’obbligo di possedere ed esibire il green pass per l’accesso nei luoghi in cui l’attività di lavoro è svolta». Tra gli obbligati ci sono, per espressa previsione normativa, anche coloro che svolgono «attività di formazione o di volontariato», oltreché di lavoro, e anche se in base a contratti esterni (si pensi, ad esempio, ai lavoratori in somministrazione). La particolarità del nuovo obbligo è che riguarda, dunque, «chiunque svolge attività lavorativa nel settore privato», quindi con ambito di applicazione che non si ferma ai «lavoratori dipendenti», che lavorano cioè alle dipendenze di un «datore di lavoro», ma arriva a «tutti» i lavoratori, anche agli autonomi, ai professionisti, agli artigiani, agli occasionali, ecc.

Obbligo al «green pass» (non al vaccino). L’obbligo in vigore da metà ottobre, come detto, riguarda «il possesso del green pass», da parte dei lavoratori che intendono accedere nei luoghi in cui l’attività di lavoro viene svolta. Essere in possesso del green pass non significa, necessariamente, essere vaccinato, tanto è vero che dal nuovo obbligo restano esclusi i soggetti esenti dalla campagna vaccinale. Infatti, il green pass (o la certificazione verde) attesta una delle seguenti condizioni:

– la guarigione dal Covid;

– l’avvenuta vaccinazione (con almeno una dose);

– l’avvenuta guarigione dopo la somministrazione della prima dose di vaccino o al termine del ciclo vaccinale;

– l’effettuazione di un tampone (negativo) rapido da non più di 48 ore o di uno molecolare da non più di 72 ore.

Il fatto che il possesso del green pass non garantisce la vaccinazione del relativo possessore, lo fa uno strumento non utilizzabile pienamente ai fini degli adempimenti e delle responsabilità in materia di salute e sicurezza sul lavoro. A tali fini, infatti, è solo il «vaccino» che può essere individuato come misura di prevenzione e protezione.

La tutela della salute. A normativa vigente, e non modificata dalla bozza di decreto legge, il datore di lavoro ha un preciso dovere: tutelare la salute dei propri lavoratori. La norma di riferimento è l’art. 2087 del codice civile, il quale obbliga (attenzione: «obbliga») l’imprenditore, pubblico o privato, ad adottare «le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Per assolverlo correttamente questo dovere (e, quindi, non incorrere nelle responsabilità anche di tipo penale), il datore di lavoro deve chiedersi: in una situazione di pandemia, come quella del Covid, una fabbrica o un ufficio dove tutti i lavoratori sono vaccinati, realizza o no condizioni di sicurezza maggiori, contro il rischio d’infezione, rispetto a una fabbrica o un ufficio in cui parte dei dipendenti non è vaccinata? La risposta va ricercata nelle indicazioni della scienza medica, non in valutazioni personali del datore di lavoro: se le indicazioni vanno in senso favorevole al vaccino, il datore di lavoro può, anzi «deve» in ossequio all’art. 2087, chiedere ai dipendenti la «vaccinazione». Non farlo, lo espone al rischio di rispondere di eventuali danni subiti da chi dovesse infettarsi in azienda. Poiché è la «vaccinazione» la risposta al suo dovere di tutela della salute, è evidente che il «green pass» non basta, anzi non serve nel caso in cui il suo rilascio faccia riferimento all’esecuzione di tamponi.

Lavoratori a rischio licenziamento. La situazione è simile a quanto già avviene per il casco, le scarpe o le lenti protettive, cioè alle tante soluzioni operative che il datore di lavoro impone ai lavoratori per la loro sicurezza. Non c’è una norma a fissare il dovere d’indossarli, perché l’obbligo scaturisce dalla procedura c.d. di «valutazione rischi» (art. 20 T.u. sicurezza, approvato dal dlgs n. 81/2008) che serve proprio a individuare le misure di sicurezza in azienda. Il datore di lavoro, pertanto, con questa stessa «valutazione dei rischi» può/deve disporre l’obbligatorietà del «vaccino» per accedere e lavorare in azienda, se dalla valutazione ciò risulta necessario per tutelare la salute dei lavoratori. Alla disposizione in tal senso del datore di lavoro, il lavoratore non può porre rifiuto pena anche la risoluzione del rapporto di lavoro, cioè il licenziamento. L’art. 20 del T.u. sicurezza, infatti, testualmente recita: «Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro». L’obbligo, ovviamente, trova limite dinanzi a ragionevoli impedimenti, come quelli di natura medico-sanitaria (immunodeficienza o controindicazioni); mai dinanzi alla contrarietà personale (la paura ad esempio). Se l’impedimento è lecito, il lavoratore avrà diritto a starsene a casa, magari con autorizzazione allo smart working, ma non potrà essere ammesso in deroga a lavorare.
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