Gli strumenti allo studio per superare la flessibilità con 62 anni/38 di contributi devono fare i conti con la sostenibilità. Fra 30 anni in Italia per ogni lavoratore ci sarà un pensionato. Un rapporto che non può reggere, per cui mancheranno i soldi per gli assegni
di Paola Valentini
Il 100 in previdenza è un numero che torna spesso, con poche lodi e molti dolori. Da una parte la riapertura in queste settimane del tavolo di lavoro sulle pensioni tra governo e sindacati ha come tema chiave, in vista della sua scadenza a fine 2021, proprio il meccanismo introdotto in via sperimentale per un triennio dal governo Lega-M5S a inizio 2019 che permette di uscire dal lavoro con 38 anni di contributi e 62 anni di età. Intanto c’è un’altra Quota 100, più lontana nel tempo, da non sottovalutare in ottica previdenziale. In base alle stime dell’Ocse già oggi l’Italia è il Paese con il numero maggiore di pensionati ogni 100 lavoratori: 70. Il fatto è che la situazione è destinata a peggiorare in prospettiva. Secondo le previsioni Ocse tra 30 anni, nel 2050, ogni 100 occupati ci saranno ben 100 pensionati (grafico in pagina). Dunque in prospettiva ogni occupato pagherà l’assegno a un pensionato con la conseguenza che senza la creazione di nuovi posti di lavoro mancheranno i soldi per gli assegni previdenziali.

Ma per ora prevale il dibattito sulla Quota 100 relativa alla flessibilità: l’obiettivo delle parti sociali è trovare un accordo su misure strutturali per permettere di poter uscire dal lavoro in anticipo rispetto al requisito di vecchiaia arrivato oggi a 67 anni, dopo quasi otto anni dall’introduzione della riforma Fornero di inizio 2012. Quando nel 2021 l’opzione di Quota 100 verrà a scadenza si determinerà un effetto «scalone» che porterà l’età di uscita, in mancanza dei requisiti contributivi previsti per il pensionamento anticipato, appunto dai 62 ai 67 anni. Il tutto considerando i vincoli di bilancio pubblico e il fattore crisi economica che impongono prudenza. Il primo, visto l’elevato debito pubblico, concede uno spazio limitato alla spesa previdenziale: mandare in pensione prima, seppure con il metodo contributivo vuol dire caricare sulle spalle del sistema obbligatorio pubblico un onere maggiore dato che il sistema italiano funziona a ripartizione, cioè le pensioni sono pagate con i contributi di chi nel frattempo lavora. Per questo fa paura il rapporto uno a uno previsto dall’Ocse nel 2050. Inoltre bisogna ricordare che l’assenza di crescita economica causa anche una riduzione dell’assegno previdenziale pubblico dal momento che nel sistema contributivo introdotto nel 1996 dalla riforma Dini, ormai in vigore per tutti (anche se pro-quota dal 2012 per chi aveva diritto al retributivo fino ad allora, ovvero era in possesso al 31 dicembre 1995 di almeno 18 anni di anzianità) il montante accumulato ogni anno viene rivalutato in base al pil dell’Italia. E quindi un Paese che cresce poco produce anche pensioni basse. Il tema è preoccupante soprattutto per i giovani che sono già alle prese con precarietà e buchi contributivi.
La ricerca di nuovi schemi di flessibilità deve fare dunque i conti con queste problematiche. D’altra parte l’obiettivo è consentire una exit strategy ai lavoratori e agevolare il turnover generazionale per le aziende riavviando al contempo l’occupazione giovanile anche utilizzando le risorse del maxi fondo europeo da 750 miliardi di euro Next Generation varato dopo la pandemia del Covid-19 per sostenere i finanziamenti di investimenti produttivi.

Nel confronto tra governo e sindacati sono in corso di approfondimento diverse possibili soluzioni, da Quota 102 (64 anni di età e 38 anni di contributi con possibili penalizzazioni per gli anni di anticipo rispetto ai 67 anni previsti per la pensione di vecchiaia) a un pensionamento a 62 anni per lavoratori usuranti e gravosi, a Quota 41 (di anzianità contributiva indipendentemente dall’età per alcune categorie di lavori).

Nel frattempo un’analisi di Credit Suisse ha calcolato quali perdite comporta in Svizzera il pensionamento anticipato. Anche nel Paese, come in Italia, il desiderio di ritirarsi anticipatamente dalla vita lavorativa è molto diffuso. Dallo studio emerge che una considerevole quota di svizzeri in effetti va in pensione prima del raggiungimento dell’età di pensionamento ordinaria (64 anni per le donne e 65 anni per gli uomini). Una buona metà è andata in pensione almeno un anno prima dell’età prevista nel primo pilastro (donne 47%, uomini 56%). Sulla base di diversi scenari, gli economisti di Credit Suisse mostrano quali ripercussioni ha sull’assegno la scelta del momento del pensionamento. Per un uomo con reddito medio un anticipo di due anni equivale a un taglio del 14%. Le perdite sono considerevoli, «e la strada verso il pensionamento anticipato si farà ancora più ardua, poiché in assenza di riforme decisive in futuro la situazione pensionistica in Svizzera è destinata a peggiorare sensibilmente», nota il Credit Suisse. Uno scenario che anche l’Italia ha di fronte. Dal raffronto degli economisti emerge che il pensionamento anticipato sarà molto più difficile da finanziare per le generazioni future per via dell’attuale basso livello dei tassi. Inoltre, i montanti vengono remunerati da anni a interessi inferiori di quelli dei pensionati, dato che solo così possono essere mantenute le eccessive promesse nei riguardi di questi ultimi. «Affinché il sogno si possa realizzare si raccomanda di costituire per tempo una previdenza privata: considerato il lungo orizzonte d’investimento, ne risultano interessi composti particolarmente elevati», suggerisce il Credit Suisse.

E in vista della ricerca di nuovi strumenti di flessibilità, anche la Corte dei Conti nella sua ultima relazione sul controllo della gestione dell’Inps ha lanciato l’allarme sui costi di Quota 100: «In un sistema pensionistico a ripartizione e in cui la maturazione del diritto a pensione prescinde dal regolare versamento dei contributi nel corso della vita lavorativa, va verificata la sostenibilità della spesa nel lungo periodo», afferma la magistratura contabile. La relazione è relativa al 2018 ma rileva gli impatti registrati nel 2019 con la normativa che da quell’anno ha introdotto Quota 100 e ha congelato l’adeguamento della pensione anticipata per chi ha 42 anni e 10 mesi di contributi (41 e 10 per le donne). «Sulle previsioni per triennio della spesa pensionistica influisce l’aumento degli accessi al pensionamento anticipato riconducibile a Quota 100, sebbene rispetto al mese di aprile 2019 la spesa pensionistica sia stata rivista al ribasso di circa 1,4 miliardi, di cui 1,2 miliardi, per effetto del minor numero di domande di pensionamento anticipato. Il rapporto tra spesa per pensioni e pil è rivisto al 15,5% nel 2019, e salirà al 15,9% nel 2022 per effetto della minor crescita rispetto alla spesa pensionistica», afferma la Corte dei Conti.

Previsioni che il tavolo di lavoro dovrà avere di fronte nel confronto sulla flessibilità e per la quale Progetica ha immaginato tre scenari dal 2022, quando verrà meno Quota 100: un suo prolungamento, la nascita di Quota 102 e l’avvio di Quota 41 (tabelle in pagina). «Abbiamo confrontato queste tre ipotesi con lo scenario di nessuna nuova flessibilità, ovvero con le regole Fornero», spiega Andrea Carbone di Progetica. In ciascuno di questi quattro casi sono stati stimati età e ammontare di pensione per i primi esclusi da Quota 100, ovvero chi compie i 62 anni nel 2022 e chi raggiunge i 38 anni di contribuzione tra due anni. «Ne è scaturita la stima del potenziale beneficio in termini di anticipo e di conseguenza anche della potenziale riduzione dell’assegno pensionistico. Non abbiamo considerato eventuali penalizzazioni esplicite, in attesa del tavolo di confronto», aggiunge Carbone, I numeri cambiano molto a seconda della singola situazione, ma un po’ come accadeva per Quota 100, i benefici vanno da poco più di un anno fino a quasi quattro anni e mezzo. In termini di riduzione dell’assegno pensionistico, le variazioni sono invece comprese tra il 6 e il 14%. «Sebbene i casi siano esemplificativi, appare chiaro come sarà da trovare un equilibrio tra flessibilità, cioè il tempo, eventuali penalizzazioni sull’importo dell’assegno e la sostenibilità, cioè il costo delle misure», sintetizza Carbone. La Ragioneria Generale dello Stato nel suo nuovo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo rileva che proprio a causa di Quota 100 si assiste negli anni 2019-2021 a una più rapida uscita dal mercato del lavoro e all’aumento del numero di pensioni in rapporto al numero di occupati. E stima che dal 2019 fino al 2024, il rapporto tra spesa pensionistica e pil torni ad aumentare con un picco del 17% per quest’anno sia per via di Quota 100, sia per il crollo del pil dovuto alla pandemia.

Peraltro l’effetto della spesa per Quota 100 si farà sentire fino al 2029, avverte la Ragioneria, che calcola che per un dipendente del settore privato quest’anno il tasso di sostituzione lordo (ovvero la parte dell’ultimo stipendio che si percepisce come prima pensione) considerando Quota 100, risulta più basso di 6 punti percentuali rispetto al pensionamento senza anticipo: ovvero il 66,2% contro il 72,1% (tabella in pagina). Peraltro i tassi di sostituzione sono destinati a contrarsi per via delle misure correttive messe in atto nel corso dell’ultimo decennio in un contesto di invecchiamento della popolazione. La Ragioneria Generale prevede che il tasso del 72,1% del caso precedente passerà al 63,8% nel 2030, fino al 57,5% del 2040. L’integrazione della previdenza complementare puoi aiutare a rimpolparlo. Con il contributo dei fondi pensione, le aliquote salgono al 71,4% nel 2030 e al 66,4% nel 2040. (riproduzione riservata)

Fondi pensione, la Rita va anche a chi anticipa

In attesa di comprendere quali saranno le evoluzioni sul fronte della possibilità di un’uscita anticipata e sul rilancio della previdenza complementare, con la possibile previsione di una nuova finestra di silenzio assenso e una campagna di educazione istituzionale, i fondi pensione definiscono meglio i propri meccanismi di flessibilità. La Covip è infatti appena intervenuta con una specifica circolare con cui fornisce ulteriori chiarimenti sul meccanismo di funzionamento della Rendita integrativa temporanea anticipata, o Rita, forma di riscatto frazionata anticipato (parziale o totale) che l’aderente può chiedere al proprio fondo pensione, al ricorrere di specifici requisiti, in maniera tale da attivare un reddito finanziario ponte (tassato alla fonte con aliquota del 15% che si riduce dello 0,30% per ogni anno di anticipo successivo al quindicesimo) che lo traghetti fino al pensionamento di vecchiaia. La prestazione è stata introdotta in maniera strutturale e autonoma con la Legge di Bilancio del 2018 (in precedenza era stata prevista come misura sperimentale con la manovra finanziaria del 2017) e nella versione originaria era stata modellata in stretto collegamento con l’Ape volontaria (che ha finito la propria vigenza a dicembre e che potrebbe essere riconsiderata tra le misure di flessibilità in uscita nell’ambito del tavolo di confronto in corso tra governo e sindacati).

La commissione di vigilanza sui fondi pensione guidata da Mario Padula ricorda ora in primo luogo come la normativa non contiene un divieto di cumulo o un’espressa incompatibilità con il godimento di trattamenti pensionistici diversi dalla pensione di vecchiaia per cui ritiene che la Rita possa essere erogata anche qualora il beneficiario percepisca, al momento della richiesta o nel corso di erogazione della rendita integrativa temporanea anticipata, pensioni di primo pilastro anticipate o di anzianità. È il caso per esempio delle pensioni erogate con Quota 100, la misura di flessibilità che per tre anni, fino al 2021, consente di andare in pensione con 38 anni di contributi ne 62 anni di età, di Opzione donna (la possibilità di andare in pensione per le lavoratrici con, a fine 2019, 35 anni di contributi e 58 anni di età, 59 se autonome, ma con assegno calcolato con il contributivo), della pensione anticipata dei cosiddetti lavoratori precoci. Covip specifica anche che è da ritenersi possibile lo svolgimento di attività lavorativa nel corso dell’erogazione della prestazione sotto forma di Rita. E chiarisce ancora come l’elemento della frazionabilità in rate è un requisito imprescindibile della prestazione per cui la Rita non può essere concessa in tutti quei casi in cui a causa dell’immediata prossimità dell’età per il conseguimento della pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza, non sia possibile attuare un frazionamento in almeno due rate. È utile ricordare a tal proposito come nelle precedenti indicazioni del 2008 l’Autorità di vigilanza aveva sottolineato che le rate possono essere al massimo trimestrali.

La Covip, alla luce poi dell’approfondimento normativo ora operato, osserva che sono consentiti versamenti contributivi che, nel caso di Rita parziale, andranno a incrementare il montante non utilizzato per l’erogazione della rendita integrativa stessa, mentre in caso di Rita totale andranno a costituire un montante a se stante nell’ambito del comparto scelto per l’erogazione di tale prestazione, salvo diversa indicazione dell’iscritto. Attingendo all’ultima Relazione annuale della Covip nel 2019 sono state 8.600 le Rita erogate, di cui sette mila a valere sull’intero montante accumulato; erano risultate 2.450 nel 2018, anno di prima applicazione delle nuove disposizioni. Il numero maggiore è stato dato dai fondi preesistenti (circa 7.100), seguiti dai fondi negoziali (circa 900), dai fondi aperti (circa 550) e dai pip (circa 50). Sono legittimati a richiedere la Rita i lavoratori che abbiano cessato l’attività e a cui manchino non più di cinque anni all’età prevista per la pensione di vecchiaia purché siano in possesso di un requisito contributivo di almeno 20 anni e i disoccupati da più di 24 mesi cui manchino non più di 10 anni all’età prevista per la pensione di vecchiaia. In entrambi i casi bisogna avere il requisito di cinque anni di partecipazione al fondo pensione. (riproduzione riservata)

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