A un anno dall’introduzione la direttiva sui pagamenti 
ha bisogno di un tagliando. Per dialogare alla pari con le big tech 
gli istituti diventino a loro volta piattaforme, dice Zaccardi (Fabrick)
di Francesco Bertolino

Otto delle 11 società più capitalizzate al mondo si definiscono piattaforme. Le fortune di Amazon, Google, Alibaba e delle altre big tech dipendono soprattutto dalla loro capacità di organizzare enormi moli dati per creare un ecosistema ideale per l’interazione fra produttori e consumatori. Una parte del mondo bancario si sta muovendo verso questo modello di piattaforma, detto open banking, anche sulla spinta della Psd2, la direttiva europea sui servizi di pagamento entrata in vigore in Italia il 14 settembre 2019. Oltre all’inizializzazione dei pagamenti, la Psd2 consente a terze parti di accedere, previo consenso del titolare, ai conti corrente bancari per trarne informazioni utili a profilare l’utente, offrire servizi su misura e, più in generale, innovare la relazione con il cliente. Un anno più tardi è tempo di tracciare un bilancio sul suo utilizzo da parte di banche e fintech con Paolo Zaccardi, ceo di Fabrick, piattaforma nata proprio con l’obiettivo di favorire lo sviluppo dell’open banking e che oggi integra il 97% degli istituti italiani.

Domanda. Quale è stata la reazione delle banche alla Psd2?

Risposta. La Psd2 è partita molto lentamente. Al principio le banche hanno vissuto la direttiva come un ulteriore obbligo a cui ottemperare, spendendo solo per quanto necessario alla mera compliance. Negli ultimi 6/9 mesi diverse banche medio-grandi hanno iniziato a investire per cogliere le opportunità offerte dalla normativa: il lockdown ha in un certo senso obbligato le banche ad accelerare la digitalizzazione dei rapporti con la clientela, sviluppando per esempio nuovi servizi per le pmi. La ritrosia iniziale era dovuta sia alla mancata comprensione del modello di open banking sia ai tempi tecnici di adattamento di organizzazioni dalla struttura complessa e ultra-regolamentata, ma oggi si sta invertendo la rotta.

D. Di che numeri stiamo parlando?

R. A gennaio del 2020 Fabrick gestiva il 70-80% delle transazioni via Api (le interfacce di dialogo fra i sistemi sviluppate da banche e altri operatori come le fintech, ndr). Oggi, pur avendo aumentato i volumi di sei volte rispetto a gennaio, gestiamo circa il 25% del totale delle chiamate Psd2 nel Paese. È un dato molto positivo perché indica che aumenta il numero di operatori attivi e di interazioni fra attori presenti sul mercato. Grazie all’uniformità regolamentare garantita dalla normativa europea, poi, negli ultimi sei mesi sono entrati sul mercato italiano almeno cinque player internazionali, affamati di informazioni bancarie. Infine, è interessante notare che stanno sfruttando la Psd2 per migliorare i servizi o la valutazione del credito dei propri clienti anche società non bancarie con ampia base clienti nel settore dell’energia, delle utility e della grande distribuzione.

D. Quali sono i possibili sviluppi più interessanti della Psd2?

R. La Psd2 è un acceleratore di una rivoluzione più ampia che prende il nome di open banking. Tra i servizi più interessanti agevolati dalla direttiva ci sono quelli legati al credit scoring, ossia la possibilità di accedere alle informazioni presenti su più conti per valutare meglio il merito creditizio dei clienti. Oppure, nell’ambito della Pfm (gestione finanziaria personale), grazie alla Psd2 è possibile prendere dati da più conti, ricostruire e categorizzare nel dettaglio le spese del cliente, individuare i suoi bisogni per poi offrire consulenza e prodotti su misura e personalizzati. Infine, i servizi abilitati dalla Psd2 possono essere combinati con servizi di vario genere come credito al consumo o rateizzazione degli acquisti. Per cogliere appieno queste ed altre opportunità alcune banche hanno compreso che lavorare con startup e fintech può essere un forte acceleratore. Ci aspettiamo quindi un aumento delle collaborazioni fra banche tradizionali e agili fintech.

D. Le banche lamentano però un’asimmetria regolamentare che obbliga soltanto loro e non altri ad aprire i caveau dei dati: si è scoperto il fianco alla concorrenza dei colossi tecnologici in ambito finanziario?

R. Il timore delle banche di un’invasione di campo delle big tech è comprensibile. Il digitale è una trasformazione che riguarda tutte le industrie dove per i clienti conta sempre più la qualità del servizio più che il marchio del fornitore. Chi ha già sviluppato la capacità di gestire dati per migliorare la relazione con i clienti è chiaramente in vantaggio: alcuni dei colossi tecnologici hanno già conquistato spazio nel settore finanziario, ma non è ancora chiaro se vogliano mettersi in concorrenza con le banche. In molti casi per una big tech è più facile collaborare che competere nel settore finanziario perché non è il loro core business. Perché la partnership sia proficua per entrambe le parti, però, banche e istituti finanziari devono mettersi in condizione di dialogare da pari a pari con le big tech, adottando lo stesso modello di piattaforma.

D. L’obbligo di condivisione delle informazioni resta però a senso unico. Benché ci si ostini a chiamarla nuova direttiva sui pagamenti, la Psd2 è stata approvata in sede Ue nel 2015: non è già ora di procedere con un aggiornamento?

R. Credo sia corretta la richiesta da parte delle banche di rendere più omogeneo il quadro normativo, dalla gestione dei dati alla PSD2. Oggettivamente tra big tech e banche esiste allo stato una differenza sostanziale negli obblighi di dare accesso a terzi ai dati. In futuro, credo, ci sarà una convergenza anche normativa in direzione di una generalizzata apertura delle informazioni oltre l’open banking, riassumibile nel concetto di open finance. Da un lato, bisognerà espandere l’accesso ai dati non solo ai servizi di pagamento ma anche a servizi di altro tipo in ambito bancario. Dall’altro, occorrerà consentire di richiedere queste informazioni a chiunque offra servizi finanziari indipendente dalla natura del fornitore. (riproduzione riservata)

Fonte: