Aifi: Nel primo semestre 410 milioni di capitali freschi a 14 fondi italiani, -75% sul 2018
Gli afflussi dall’estero scendono da 607 a 110 milioni. Pesa l’incertezza politica Investimenti giù del 12% a 2,5 miliardi
di Francesco Bertolino

Brusca frenata per il private equity italiano. Stando all’analisi condotta da Aifi in collaborazione con Pwc, nei primi sei mesi dell’anno la raccolta di capitali freschi si è fermata a 410 milioni – distribuiti su 14 operatori nazionali – in calo del 75% rispetto agli 1,7 miliardi del primo semestre 2018. Al dato ha contribuito la diminuzione sia della raccolta domestica sia, soprattutto, di quella estera. A causa del minore impegno del settore pubblico, comunque responsabile del 30,6% degli afflussi, la prima è scesa da 988 a 300 milioni. La seconda ha invece registrato un crollo, passando da 607 a 110 milioni. «Nel primo semestre sono mancati gli investimenti degli operatori pubblici», ha rilevato Innocenzo Cipolletta, presidenti Aifi. «I rischi geopolitici hanno invece scoraggiato la raccolta estera». Secondo Cipolletta, però, «anche il nuovo governo può supportare il mercato attraverso misure che, come quelle auspicate nel venture capital, permettano il moltiplicarsi di operatori e investimenti. Sollecitiamo il governo affinché favorisca l’avvio di fondi di fondi istituzionali per tutti i comparti del private capital». Per il presidente Aifi nuova linfa potrebbe inoltre arrivare dagli Eltif, fondi chiusi a lungo termine, e da un miglior collegamento con il private banking. Sui nuovi Pir, invece, il giudizio di mercato e gestori appare irrimediabilmente negativo per via dei noti problemi di liquidità.
Il vistoso calo della raccolta è in parte legato anche al ciclo degli investimenti, ha sottolineato Anna Gervasoni, direttore generale Aifi: fra 2017 e 2018 (si veda tabella in pagina) il private equity italiano ha fatto il pieno di fondi (quasi 10 miliardi in due anni) e perciò il bisogno di nuovi capitali è al momento ridotto. Anche il dato della raccolta estera potrebbe poi risultare meno preoccupante di quanto il -75% lasci pensare. «Il calo dipende sì da un dato contingente: l’incertezza politica interna scoraggia gli investitori stranieri dall’affidare fondi in gestione a operatori italiani», spiega Aldo Piccarreta, partner dello studio legale Latham & Watkins. «La discesa dipende però soprattutto da un elemento di tendenza: il private equity è sempre più un’industria globale in cui il ruolo degli operatori domestici è marginale».
Globalmente, d’altronde, il mercato del private equity in Italia resta piccolo ma tonico. Nel primo semestre dell’anno il numero di operazioni è salito del 4%, da 160 a 166, mentre l’ammontare investito è sceso sì del 12% a 2,5 miliardi, ma solo per mancanza di grandi deal, che si sono invece conclusi dopo la fine di giugno (Forgital su tutti). «Il trend degli investimenti mostra un andamento positivo negli ultimi anni con un tasso annuo di crescita composto del 15%», commenta Francesco Giordano, partner di Pwc Italia. «L’aumento delle operazioni di buyout (+20%) testimonia inoltre la buona salute del settore e il crescente interesse degli operatori internazionali». Più che la domanda, rileva Piccarreta, il problema del mercato italiano del private equity è l’offerta. «Gli operatori internazionali faticano a trovare asset appetibili in Italia sia per la scarsa propensione degli imprenditori ad aprire il capitale a terzi sia per la mancanza di canali di comunicazione organizzati con il private equity». Una circostanza che, unita all’incertezza politica, ha inciso anche sull’ammontare dei disinvestimenti, in calo del 20% sul 2018. Data la penuria di aziende sul mercato, conclude Piccarreta, «non è facile per i fondi di private equity trovare opportunità di reimpiegare il ricavato quanto ricavato dal disinvestimento». (riproduzione riservata)

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