La Dna lancia l’allarme riciclaggio. Ecco come investire in bitcoin & co. in modo virtuoso
È bene conservare la documentazione sulle transazioni
Pagina a cura di Maurizio Dattilo e Stefania Barsalini

C’è il rischio di «un utilizzo massiccio» di criptovalute da parte delle organizzazioni criminali in genere, dei terroristi e anche degli evasori, per condurre i loro affari, ripulire e successivamente rimettere in circolo denaro sporco, sottraendosi a ogni genere di controllo. A lanciare l’allarme è la Dna, Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, nella relazione annuale. La procura nazionale guidata da Federico Cafiero De Raho avverte: «Gli scambi diretti fra utenti continueranno a permanere non presidiati anche in prospettiva» e le modalità di queste operazioni sono più d’una. Di conseguenza le indagini rischiano di essere fatte con armi spuntate: ci sono oggettive «difficoltà» per la «complessa acquisizione di prove» senza contare la «concreta sequestrabilità» delle somme illecite. La risposta non può che essere una regolamentazione antiriciclaggio efficace e condivisa a livello internazionale.
In buona sostanza la Dna sostiene che organizzazioni appartenenti a malavita e terrorismo, nelle operazioni criminali, scambiano sempre più frequentemente partite di valori (denaro in poche parole) tramite delle reti informatiche o più semplicemente scambiando chiavette Usb contenenti le chiavi private di un wallet gonfio di bitcoin.
Sicuramente stiamo assistendo a una svolta epocale della dematerializzazione totale della fisicità delle banconote in tutti i settori, e quello criminale non fa eccezione. Ancora prima di questo allarme, la Guardia di finanza nella circolare n. 01/2018, aveva già denunciato il rischio antiriciclaggio, relativo alla possibilità che l’investitore utilizzi la valuta virtuale per svolgere attività illecita, sfruttando l’assenza dei controlli da parte delle autorità sulle contrattazioni in moneta virtuale; nella circolare, tra l’altro, si precisa che: «Si considerino, ulteriormente, ipotesi di accredito sui rapporti intestati al contribuente di somme rinvenienti da entità giuridiche le quali gestiscano piattaforme informatiche che convertano moneta avente corso legale in valuta virtuale o criptovalute, talora utilizzate, per esempio, dagli interessati, per giochi online. Orbene, particolare attenzione va riposta a tali operazioni di accredito, tenuto anche conto che i passaggi/gli scambi di criptovalute (per esempio, bitcoin) tra soggetti non sono censiti, investendo un mercato totalmente non ufficiale: in astratto, infatti, un contribuente potrebbe cedere merce in evasione di imposta a un terzo, ricevendone il pagamento tramite valuta virtuale, che egli potrà aver cura di convertire in moneta legale solo successivamente, per poi dichiarare ai verificatori, in sede di eventuale, successiva attività ispettiva, che tali somme rinvengano da vincite da gioco su piattaforme online».
In paesi come l’Italia scambiare masse fisiche di denaro (criminalità o evasione è uguale) tutto sommato è ancora teoricamente possibile. Tuttavia, grazie a questi presidi di controllo, prelevare o immettere valuta nei conti correnti bancari (o altro deposito equipollente) è praticamente impossibile. Procedere a un deposito o un prelievo «anomalo» in contanti, eseguito in banca, nel volgere di qualche mese, farebbe scattare una serie di controlli da parte della Gdf o della procura. Pertanto alla fine dei conti, le organizzazioni criminali, anche nel caso dei bitcoin farebbero come per il contante fisico: scambiano ma non depositano mai in banca (almeno in Europa), solo che lo scambio avviene più facilmente.
I controlli. Il primo presidio di controllo dell’attività illecita è rappresentato sicuramente dai cambiavalute virtuali. L’attenzione si pone infatti sugli Exchange company, ovvero gli operatori di mercato che permettono lo scambio tra valuta virtuale e valuta fiat (ossia la valuta nazionale). In buona sostanza gli Exchange company, ancora prima di immettere denaro nel sistema bancario tradizionale, operano (o dovrebbero operare) una serie di presidi atti a scongiurare l’uso illecito della valuta virtuale. Successivamente sarà il presidio bancario a fare il resto, al momento del bonifico ricevuto o inviato da/per gli Exchange.
Tuttavia, come esistono banche compiacenti in paesi compiacenti, esistono Exchange company compiacenti che attuano controlli molto superficiali. Sul tema si osserva che comunque gli Exchange europei adottano politiche antiriciclaggio molto stringenti, in quanto detengono tutte le informazioni relative agli strumenti di pagamento tracciati (bonifico, carta di credito, Imel ecc.) e collaborano con le autorità. In particolare in Italia il legislatore ha deciso di adeguare la normativa antiriciclaggio (dlgs n. 231/2007) applicandola anche ai prestatori di servizi utilizzanti le criptovalute.
Il contribuente virtuoso. Risulta importante, ai fini dell’accertamento fiscale, condurre dunque un’attività di investimento in criptovalute assolutamente «virtuosa»; il possessore di criptovaluta, per stare nella tranquillità accertativa, deve dunque conservare tutta la documentazione inerente alle transazioni effettuate. Si ricorda infatti che l’Agenzia delle entrate deve tener conto delle prove documentali. Nel caso di vincita al lotto, per esempio, non è sufficiente esibire le ricevute delle giocate, ma è anche necessario allegare la ricevuta del versamento sul conto delle somme incassate. Analogamente, per le criptovalute, non basterà indicare che l’incasso deriva dall’investimento effettuato, ma occorrerà conservare prima e presentare poi il massimo dei dettagli di tutte le transazioni effettuate. Non a caso la Blockchain tiene in memoria tutte le transazioni ed è possibile dunque operare i controlli: basta avere i mezzi informatici.
Nelle more di risolvere questi problemi, molti si chiedono se sia possibile, spendere direttamente bitcoin acquistando beni e servizi, senza passare da una preventiva conversione in euro. A tutt’oggi in Italia sono veramente pochi i soggetti economici disposti ad accettare criptovaluta in luogo degli euro.
La notizia che ha fatto più scalpore è stata una compravendita immobiliare operata da un soggetto persona fisica (di origine cinese) per acquistare un’abitazione a Torino, spendendo bitcoin. Ma com’è possibile operare una compravendita, con tanto di notaio, senza utilizzare la moneta corrente? Le norme attuali permettono un tale negozio? Giova subito anticipare che l’utilizzo della moneta in corso d’uso (l’euro) nella compravendita ha effetto liberatorio, libera cioè il debitore da qualsiasi rivalsa, mentre ciò non si può dire della valuta virtuale (non ancora), in quanto non è considerata valuta a tutti gli effetti. Sulla base di tale osservazione pertanto la forma giuridica che più si adatta alla fattispecie, che possa replicare un effetto liberatorio, è il baratto (o permuta) di beni.
Per quanto riguarda le descritte vendite immobiliari in cambio di bitcoin, risulta dunque che il notaio rogante non ha «liberato» la parte acquirente dall’obbligazione di pagare, in quanto in atto è stato affermato che il pagamento sarebbe avvenuto in un momento successivo, senza specificare le modalità ma solo i tempi.
In tal modo si è permesso alle parti di «trasformare» la compravendita in un «baratto» vero e proprio dove una delle due attività barattate è rappresentato da un wallet pieno di bitcoin sonanti, e utilizzando così lo strumento giuridico della datio in solutum (prestazione in luogo dell’adempimento) prevista dal codice civile all’art. 1197.
Se dal punto di vista pratico la questione sembra risolta brillantemente, da un punto di vista giuridico non lo è affatto. Occorre tenere presente che l’articolo 49 del dlgs n. 231/2007, vieta il trasferimento di denaro contante e di titoli al portatore in euro o in valuta estera, quando il valore oggetto di trasferimento è complessivamente superiore a tre mila euro. Nel caso delle valute virtuali, tuttavia, essendo queste ancora non di chiara collocazione nello scenario economico, sfuggirebbero parzialmente (il condizionale è d’obbligo) alle limitazioni di cui all’art. 49, nel momento in cui la valuta virtuale fosse interpretata come un bene e non come una moneta.
Le parti devono essere completamente edotte che una simile transazione è comunque censita (registro immobiliare o spesometro) e pertanto si devono preparare a un sicuro e celere controllo da parte delle autorità accertative. In questi casi un’adeguata predisposizione della documentazione è alla base di una difesa ottimale ed efficiente.
Ma allora com’è possibile poter procedere alla vendita incassando bitcoin e al riparo di qualsivoglia forma di accertamento basato sulle norme dell’antiriciclaggio? Nello scenario italiano è attiva una società (Tinkl.it srl) che unisce il mondo «virtuale» dei possessori di criptovalute con il mondo reale di tutti gli esercenti desiderosi di ampliare il loro parco clienti, permettendo al venditore di incassare euro e contemporaneamente permettendo alla parte acquirente di utilizzare i propri bitcoin, il tutto nella legalità. Tinkl.it apre una posizione di «scambio» euro/btc tra acquirente e venditore, facendo coincidere la domanda e l’offerta delle due monete. Verifica preventivamente la bontà della fattura e del negozio sottostante e se tutto è in regola procede allo scambio. In tal modo opera una transazione compliant sul piano delle norme antiriciclaggio descritte, permettendo transazioni di importo superiore a tre mila euro. In definitiva Tinkl.it, basandosi sulle esperienze estere, da tempo operanti, e adattandole alle normative italiane in tema di antiriciclaggio, ha messo a punto un modello di business che permettere di spendere bitcoin operando acquisti di valore consistente.
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