Il commento di Fismic Confsal sull’ipotesi di riforma pensionistica
L’obbligo sceso a 62 anni pesa 8 mld in più
di Maria Elena Marsico

Mentre avanza in maniera confusa e contraddittoria la discussione interna alle forze di governo sul nuovo Def, cominciano a delinearsi in maniera maggiormente precisa i contorni di quella che dovrebbe essere la nuova riforma pensionistica. Sembra essere abbandonata la quota 100 con l’obbligo di 64 anni di età anagrafica e 36 di contributi, mentre sembra prendere maggiore vigore l’ipotesi da parte del governo di far comporre sempre quota 100 con l’obbligo sceso a 62 anni di età anagrafica, salendo a 38 anni in minimo contributivo per comporre la fatidica quota 100; sembrerebbe rimanere invariato il minimo di 41 anni e mezzo di contributi per poter accedere alla pensione.
Cerchiamo di valutare cosa comporterebbe questa parte della manovra sia alle casse dello Stato sia ai singoli lavoratori che volessero usufruirne. L’unico dato a nostra disposizione è quello elaborato dalla società Tabula di Stefano Patriarca per il quale la quota 100 con 62 anni compiuta comporterebbe costi per circa 13 miliardi di euro netti, che diventerebbero 20 miliardi ove si tenga conto dei minori contributi che lo stato incasserebbe. Rispetto alla precedente versione con l’obbligo dei 64 anni come età anagrafica, il costo per lo stato innalzerebbe di circa 3 miliardi e di circa 8 miliardi se si comprendono anche i minori contributi versati. La platea dei lavoratori coinvolti sarebbe di circa 660 mila, che raggiungerebbe il requisito pensionistico con l’età anagrafica a 62 anni, contro i neanche 350 mila, se l’età anagrafica fosse quella di 64 anni.

A legislazione costante (Fornero) in pensione sarebbero andati nel 2019, circa 150 mila lavoratori che vedrebbero il loro numero più che raddoppiato con la quota 100, vincolati ai 64 anni e quadruplicata nel caso della quota 100 col vincolo dei 62 anni. Le regioni maggiormente favorite sarebbero quelle del Nord Italia e quelle con minori uscite sarebbero quelle del Sud Italia per ovvie ragioni di una diversità dello sviluppo economico degli anni del «boom» e il 78% dei coinvolti sarebbero lavoratori di sesso maschile entrati precocemente nel mercato del lavoro.
Questi sarebbero i maggiori costi per le casse dello Stato, a meno che intervengano dei tagli agli interventi di assistenza e di formazione continua, oggi previsti dalla legislazione a favore dei lavoratori, circa un miliardo il valore dello 0,30% per la formazione continua e tre volte tanto quelli a sostegno della cassa integrazione per le aziende fallite (Fondo di integrazione salariale Fis).

I costi complessivi della manovra finanziaria sarebbero i seguenti: 13 miliardi di euro per evitare l’aumento dell’Iva, 3 miliardi per l’andamento delle spese correnti non comprimibili e circa 8 miliardi per le pensioni-reddito di cittadinanza, e questo comporterebbe un aggravio dei conti pubblici di circa 45 miliardi di euro e questo senza tener conto dei costi derivanti dalla riforma fiscale seppur in versione light che riguarda esclusivamente le Pmi e le partite Iva (costo circa 5 miliardi).
Afferma il segretario generale nazionale della Fismic Confsal, Roberto Di Maulo: «Ai circa 50 miliardi della manovra economica del Def sopra descritta, se si volesse mettere mano anche alle accise sui prodotti petroliferi come promesso agli elettori, ci sarebbe bisogno di altri 5 miliardi. Inoltre, c’è da tener conto del costo della tassa spread che porta il complesso della manovra a circa 60 miliardi.

Si tratta di una massa di fondi che il Paese non è in grado di sostenere a meno che non venga compensata da un aumento delle tasse a carico dei cittadini. Infatti il condono fiscale non può essere conteggiato a bilancio, in quanto manovra una tantum senza carattere strutturale, mentre l’aggravio dei costi a carico dello Stato è tutto formato da voci che hanno caratteristiche strutturali».
Tornando alle pensioni, dopo aver esaminato il costo per lo Stato, vediamo cosa accade al singolo lavoratore che decidesse di aderire al pensionamento a 62 anni di età e 38 di contribuzioni. Secondo lo studio Epheso, per un lavoratore di 62 anni con un reddito di 35 mila lordi annui, ogni anno di anticipo della pensione, la perdita sarebbe di circa il 6% per ciascun anno di pensione anticipata.
Di conseguenza, il calo del rendimento dell’assegno pensionistico, passerebbe dai circa 21 mila annui se fosse andato in pensione a 67 anni a circa 18 mila euro l’anno con il pensionamento anticipato a 62 per 38 anni di pensione contribuita. Ciò a dire che il lavoratore che decidesse di accedere al pensionamento anticipato, perderebbe 3 mila euro ogni anno, fintanto che rimane in vita.
Conclude Di Maulo: «Una perdita consistente che non tutti possono permettersi, di conseguenza non vorrei che si fosse fatto tanto rumore per nulla, ovverosia che tale misura favorisca soltanto coloro che godranno dell’assegno pensionistico ridotto e aggiungeranno a esso del lavoro nero. Infine spero che i cittadini siano resi edotti di questa importante differenza reddituale e non si giochi sull’euforia del momento per far scoprire, a chi accede al sistema pensionistico agevolato, del taglio sull’assegno pensionistico solo dopo aver avuto l’accesso al sistema».

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