S i narra che alla battaglia di Kolin il re Federico il Grande urlasse ai suoi prussiani in fuga: «Furfanti, volete vivere per sempre?». Sotto il fuoco austriaco, con tutta probabilità i soldati si sarebbero accontentati semplicemente di sopravvivere, anche se a metà del Settecento la speranza di vita media era a malapena di 40 anni. Grazie ad antibiotici e frigorifero è cresciuta: oggi si arriva a 80 e in alcune aree più ricche a 90. Documenti anagrafici alla mano, l’uomo più vecchio del mondo (un francese) è morto a 122 anni, anche se il primato è in dubbio a causa di un indonesiano che la scorsa primavera è defunto all’età (pare) di 146. Ma il traguardo di arrivare fino al secolo e mezzo in buona salute non è più un tabù per l’umanità del Ventunesimo secolo. Lo scorso marzo il chief medical officer di Human Longevity (una start-up che ha tra i suoi fondatori Craig Venter, il controverso decodificatore del genoma umano) ha sostenuto che entro il 2060 l’uomo potrà tranquillamente arrivare fino a 140 anni con le tecnologie oggi allo studio o sottoposte a verifica clinica. I risultati attesi sarebbero in grado di garantire al genere umano di vivere quanto il vertebrato più resistente, lo squalo della Groenlandia, ovvero tra i 200 e i 500 anni.

Affari e «longevity»
Follie, fantascienza, bufale da startupper alla ricerca di fondi o sogni da ricchi visionari della Silicon Valley? A crederci, nel suo ultimo bestseller «Homo Deus», è tra gli altri lo storico israeliano Yuval Noah Harari (lettura consigliata da Bill Gates, oltre che da Barack Obama): non si può escludere, sostiene, che nel 2050 chiunque sia in buona forma fisica, e abbia un buon conto in banca, possa avere una reale opportunità di sconfiggere la morte, dieci anni alla volta, grazie al ricorso ad ingegneria genetica, medicina rigenerativa e nanotecnologie.

Nei fatti, con l’allungamento della speranza di vita inizia a prosperare anche quello che potremmo definire il «business dell’immortalità»: cavalcato da «Big Pharma», dalle tante start-up alla ricerca di finanziamenti e anche dagli «over the top» della Rete, Google in primo luogo. Basterebbe scorrere la cronaca recente: solo pochi giorni fa la Food and drugs administration americana ha dato il via libera al «Car-T» un trattamento sviluppato dal colosso Novartis contro una forma di leucemia che utilizza le cellule del sistema immunitario, estratte, modificate e reimmesse nell’organismo. Il tutto, però, al costo iperbolico di 475mila dollari. A metà agosto invece un gruppo composto da Amazon (Jeff Bezos) , dal Founders Fund di Peter Thiel (creatore di Pay-Pal), da Fidelity e da altri investitori ha finanziato per 35 milioni di dollari (in totale 154 milioni) la Unity Biotechnology, società che lavora su una molecola che eliminando cellule «senescenti» impedisce o ritarda l’artrosi, malanno ben noto all’80% di chi ha più di 65 anni. Il business della «longevity», va detto, ha il suo cuore nella costa ovest degli Stati Uniti e nel particolare habitat della Silicon Valley e dei suoi profeti. Si domandava di recente il «New Yorker»: sono giovani (non sempre per la verità) spesso ricchissimi e hanno una fede incrollabile nella tecnologia, perché non dovrebbero pensare che anche la morte sia un problema «tecnico» e quindi risolvibile?

Da Mountain View a Facebook
Proprio quattro anni fa il precedente Ceo e fondatore di Google Ventures, Bill Maris (ora ha lanciato la sua società di venture capital, Section 32’s) proponeva a Sergey Brin e Larry Page di creare una società per affrontare «la sfida dell’invecchiamento e delle malattie ad esso collegate»: nasceva così Calico (California Life Company), affidata all’ex Genentech e attuale chairman di Apple, Art Levinson. Che cos’è Calico? Una lunga sequenza di accordi con tutti i più noti laboratori degli Stati Uniti. Un miliardo di dollari da investire, un alone di mistero e, si dice, un migliaio di topi da seguire dalla nascita alla morte per individuare i «biomarcatori» dell’invecchiamento e intervenire sui geni. Brin deve anche aver pensato per sé, visto che ha confessato da tempo di essere portatore di una mutazione genetica denominata LRRK2 e di avere maggiori probabilità di sviluppare il morbo di Parkinson. Lo stesso gene imperfetto della sua ex moglie Anne Wojcicki, intraprendente manager che ha fondato 23andMe, società di ricerca che custodisce una enorme banca dati sul Dna e che del Parkinson sta cercando di tracciare le cause genetiche. Proprio la settimana scorsa 23andMe ha chiuso un ennesimo giro di finanziamenti che ha portato il suo valore a 1,75 miliardi di dollari, parecchio anche per la Silicon Valley.

Persino Mark Zuckerberg e sua moglie Priscilla Chan hanno avvertito, a modo loro, l’esigenza di affrontare il tema della longevity: alla nascita della prima figlia, quasi due anni fa, il creatore di Facebook ha annunciato di voler destinare il 99% delle azioni del social network – valore di 45 miliardi di dollari – per lasciarle «un mondo migliore». E si chiedeva: «Può la nostra generazione curare le malattie in modo che la vostra possa vivere vite più lunghe e salutari?».

Insetti, vermi e topi
Dato il tenore dei suoi protagonisti risulta così assai curioso che l’epopea della «vita eterna» parta in realtà da moscerini, vermi e topi. È alle ricerche effettuate sul moscerino della frutta Drosophila melanogaster , sul verme Caenorhabditis elegans e sul topo da laboratorio Mus musculus che si devono i risultati di oggi. Nei vermi e negli insetti, ad esempio, esiste una relazione diretta tra metabolismo e invecchiamento, ricordava già nel 2006 Stefano Gustincich, oggi direttore del dipartimento di Neuroscienza dell’Iit. Troppe calorie e quindi maggior stress ossidativo diminuiscono la durata della vita dei topi da laboratorio. La loro longevità e fertilità sono spesso inversamente correlate. Insomma: insetti, vermi e topi sono utilizzati e manipolati per studiare le variazioni del genoma, e per identificare quelle responsabili dell’invecchiamento. Una valanga di ricerche che si distribuisce su quattro-cinque grandi strategie di «aggressione».La prima è quella che agisce sul metabolismo, utilizzando farmaci già disponibili che si applicano ad altre malattie. È il caso del Metformin, usato per il diabete ma che ha mostrato effetti miracolosi sulla longevità (la Fda ha autorizzato la sperimentazione). O della Rapamicina, che ha aumentato l’aspettativa di vita dei topi del 38% ma che sopprime le difese immunitarie. Ma gli studi si concentrano anche sul Dna e sulle modifiche dovute agli stress ossidativi. Da una decina d’anni, inoltre, si lavora su farmaci in grado di «uccidere» selettivamente le cellule «senescenti», quelle che non sono più in grado di proliferare e che si sono dimostrate tossiche per l’organismo. Sono promettenti anche le cellule staminali giovani, in grado di rilasciare sostanze protettive e anti-aging.

Parabiosis
Forse, però, a colpire di più la fantasia (e anche a creare qualche dilemma etico) sono le trasfusioni di sangue giovane, che sperimentate nei «soliti» topi si sono rivelate utili nella riparazione dei tessuti. Anche quest’ultimo campo di applicazione, definito «parabiosis», è diventato rapidamente business. A Monterrey, in California, l’ex studente di Stanford Jesse Karmazin ha fondato una start-up, Ambrosia (l’elisir di eterna giovinezza degli dei olimpici) che ha proprio questo fine. Per 8mila dollari a trasfusione e con circa due trasfusioni al mese di sangue prelevato da soggetti tra i 15 e i 22 anni, Karmazin si prefigge di replicare negli esseri umani gli stessi risultati: «Più di 50 anni di studi sui topi – ha detto al Corriere – hanno provato che il sangue giovane può far regredire i processi di invecchiamento». Il giovane startupper non è tuttavia entrato in dettagli organizzativi, limitandosi a rispondere: «Accettiamo pazienti al nostro sito Internet». Ma la parabiosis non è che la punta dell’iceberg della complessità delle questioni che il «business dell’immortalità» comporta. Problemi economici e sociologici. Se, come rileva lo storico Harari, siamo destinati a vivere fino a 140 anni e oltre, come evolveranno le relazioni sociali e familiari alla compresenza di quattro-cinque generazioni, figli, padri, nonni, bisnonni e persino trisnonni? E quando si andrà in pensione? Ma si andrà in pensione o bisognerà invece pensare alla propria vita come a un continuo apprendimento? E poi, ancora di più, la «longevità» sarà un privilegio esclusivo di chi è ricco? Ormai, ricorda il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, le nuove tecniche di ricerca sul genoma (più avanzate di quelle tradizionali «chimiche») e il sistema regolatorio sulle verifiche di nuovi farmaci o protocolli (simile in Europa e negli Usa) fanno sì che per portare un nuovo prodotto sul mercato servano 10-12 anni e all’incirca 2,5 miliardi di dollari di investimento. «Andranno trovati indubbiamente nuovi criteri se si vuole garantire la sostenibilità dei sistemi come quello italiano, e prezzi accettabili per sostenere la ricerca», dice. In effetti quei 16mila euro al mese per trasfusioni non sono un target abbordabile per più del 99% della popolazione. Ma in fondo, come urlava Federico il Grande ai suoi soldati, «volete forse vivere per sempre?»

@stefanoagnoli
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