di Teresa Campo
Il mercato mondiale per le assicurazioni e riassicurazioni dei rischi speciali è solido e interessante, ma anche sempre più difficile. Parola di Vincent Vandendael, head of Global Regions di un colosso internazionale della riassicurazione come gli storici Lloyd’s. Il gruppo, in base ai risultati preliminari anticipati a MF-Milano Finanza, ha chiuso il primo semestre con 1,39 miliardi di euro di utile e un rendimento di capitale annualizzato del 8,9%. I numeri sono in leggero calo e non tengono ovviamente conto dei recenti uragani che hanno colpito Caraibi e Stati Uniti, ma non preoccupano il colosso assicurativo. Ecco perché.

Domanda. Come giudica il lieve calo nei conti del primo semestre?
Risposta. Ci siamo comunque difesi meglio dei concorrenti, come dimostrano il trend del combined ratio e quello dei nuovi prodotti. Nel semestre infatti i Lloyd’s hanno registrato una riduzione del combined ratio al 96,9% rispetto al 98% del giugno 2016 e hanno registrato un aumento a 21,9 miliardi dei premi lordi sottoscritti. Il combined ratio è un importante parametro di redditività che esprime il rapporto tra sinistri occorsi e costi di gestione netti rispetto ai premi netti, per cui se scende vuol dire che questi ultimi sono aumentati rispetto al resto.

D. Altri dati positivi?
R. In un mercato caratterizzato da forte liquidità e bassi tassi di interesse il numero di prodotti sviluppati è cresciuto. Anche la capitalizzazione dei Lloyd’s rimane solida, tale da consentirci di affrontare i rischi attuali, come testimonia anche la conferma di rating elevati da parte delle agenzie di rating, dall’AA- di Fitch all’A+ di Standard & Poor’s e alla A di Am Best.

D. I Lloyd’s si occupano di rischi speciali. Di quali dobbiamo preoccuparci di più?
R. Più che dei tipi di rischio dobbiamo preoccuparci di alcune importanti realtà: i rischi speciali sono in aumento, per forza e per tipologia, e questo in tutto il mondo. Inoltre siamo tutti sottoassicurati, privati e imprese, italiani in primis.

D. Molti non si assicurano perché lo ritengono troppo costoso…
R. È vero che il costo della tutela contro queste eventualità non è trascurabile e che la perdita economica è sempre molto maggiore della perdita assicurabile. È anche vero però che a un aumento dell’1% degli assicurati rispetto al totale corrisponde un taglio del 22% del costo della polizza pro capite. Non va poi dimenticato che, se non ci si assicura, in caso di eventi disastrosi saranno i governi a dover intervenire e pagare, ovvero tutti i contribuenti.

D. Ma quanto siamo sottoassicurati in Italia?
R. In realtà il discorso della sottoassicurazione riguarda tutti i Paesi e tutti i tipi di rischi speciali, che da soli valgono 168 miliardi. Gli eventi catastrofali possono infatti generare vari tipi di danni, per esempio agli immobili. Ma persone e aziende non lo fanno. Basta pensare che, secondo quanto riferito dall’Ania, in Italia è assicurato contro questo tipo di rischio solo l’1% delle case e solo il 40% degli immobili del terziario, ovvero stabilimenti, uffici, spazi commerciali. In generale, in Italia il coefficiente di penetrazione di questo tipo di polizze rispetto al pil nazionale è dello 0,6% contro il 3,5% degli altri Paesi europei.

D. Quali sono oggi a livello mondiale i rischi più gravi o in crescita?
R. Lo esprime chiaramente il City Risk Index, che analizza 301 città nel mondo in riferimento a 18 tipi di rischio globale, per un valore di oltre 37 mila miliardi di dollari, e quale percentuale del loro pil può essere messo a repentaglio da ciascuno. I rischi sono raggruppati in tre grandi filoni. Il primo, a noi meno vicino, riguarda le economie emergenti: 2/3 delle loro perdite finanziarie per rischi speciali sono legate alla forte crescita economica che espone le loro città a catastrofi naturali. Il secondo riguarda invece i cosiddetti rischi man made, creati dall’uomo, e qui si spazia dai crash di mercato alle interruzioni di energia e agli incidenti nucleari, cui sono associate quasi la metà delle perdite potenziali. Per esempio, il rischio di un crollo dei mercati da solo rappresenta quasi un quarto delle perdite potenziali di tutte le città. Il terzo trend riguarda infine i rischi nuovi o emergenti, come cyber-attacchi, pandemie umane, epidemie nelle coltivazioni. Insieme, rappresentano più di un terzo del totale del potenziale di rischio rispetto al pil di un Paese. E non abbiamo ancora parlato di terrorismo.

D. Che cosa emerge per l’Italia?
R. L’indice analizza quattro città italiane. Per Milano, a fronte di un pil di 205,4 miliardi di dollari, il primo rischio è il market crash, che vale 4,9 miliardi, seguito da aumento del prezzo del petrolio con 3,98 miliardi, dai cyberattacchi con 2,6 miliardi e da pandemie con 1,59 miliardi. Stesso ordine dei rischi per Roma, dove, a fronte di un pil di 161,6 miliardi, il primo rischio è sempre il crollo dei mercati con 3,9 miliardi. E lo stesso vale per Torino. L’ordine cambia invece a Napoli, che ha un pil di 70,8 miliardi: in testa è sempre il market crash, che mette a rischio 1,69 miliardi, tallonato però dal rischio Vesuvio, che ne mette a repentaglio quasi altrettanti. (riproduzione riservata)
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