di Paola Valentini
Appena rientrati dalle ferie i lavoratori italiani hanno trovato alcune novità sul fronte della previdenza. Il premier Paolo Gentiloni ha firmato nei giorni scorsi il decreto che rende operativo l’Anticipo Finanziario a Garanzia Pensionistica (Ape) e che fa decollare la Rita (Rendita Integrativa Temporanea Anticipata), due misure che viaggiano in parallelo (si veda box nella pagina a fianco) e completano il pacchetto previdenziale previsto nell’ultima legge di Bilancio. Ape volontaria e Rita sono strumenti attesi da tempo che introducono nel sistema pensionistico una maggiore flessibilità in uscita, danno la possibilità di andare via dal lavoro prima (a 63 anni di età) attutendo l’impatto dell’adeguamento automatico dei requisiti anagrafici all’aspettativa di vita. Un meccanismo che nel 2019 farà salire a 67 anni l’età per l’accesso alle pensioni di vecchiaia (cinque mesi in più rispetto a oggi), un livello tra i più alti al mondo. Il legame tra speranza di vita ed età di pensionamento, introdotto dal ministro Sacconi, «aveva un senso nel 2009, ma dopo i provvedimenti Monti-Fornero che hanno in pratica elevato l’accesso alla pensione di circa sei anni abolendo il sistema delle quote e accelerando bruscamente l’allineamento dell’età prevista per le donne a quella degli uomini, è divenuto una vera e propria crudeltà per le lavoratrici e i lavoratori», ha di recente sottolineato Domenico Proietti, segretario generale della Uil. Il primo rialzo dell’età pensionabile (tre mesi) è avvenuto nel 2013, il secondo (quattro mesi) è scattato nel 2016. Il prossimo adeguamento sarà a inizio 2019. L’Istat pubblicherà i dati definitivi sulla speranza di vita tra il 2014 e il 2016 a fine ottobre, ma, se tutto andrà come nelle previsioni, lo scatto tra due anni ci sarà, dando all’Italia il triste primato di Paese europeo con la più alta età legale per ritirarsi dal lavoro.

La Uil ha messo a confronto l’età di pensionamento di vecchiaia nei vari Paesi dell’Ue, scoprendo che l’Italia è già oggi sul podio della classifica. Davanti c’è soltanto la Grecia, dove il requisito anagrafico richiesto è pari 67 anni, «anche se questo è suscettibile di numerose deroghe, che possono abbattere l’età di accesso alla pensione fino a 62 anni», spiega il report della Uil. Dall’analisi emerge che nella Ue il traguardo per la pensione, nel settore privato, è in media per gli uomini di 64 anni e 2 mesi, mentre per le donne è di 63 anni: due anni e cinque mesi più bassa di quella degli uomini italiani, che vanno in pensione a 66 anni e sette mesi, e due anni e sette mesi più bassa delle donne dipendenti nel settore privato (65 anni e sette mesi). In dettaglio, in Italia il requisito di età per l’accesso alla pensione è 66 anni e 7 mesi per tutti i lavoratori uomini, sia nel pubblico che nel privato, e anche per le lavoratrici del settore pubblico, mentre il requisito è di 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici del settore privato e di 66 e 1 mese per le autonome. Queste due ultime categorie però dal prossimo gennaio subiranno un aumento (di un ulteriore anno per le dipendenti e di sei mesi per le autonome) che le porterà ad allinearsi con l’asticella fissata per gli uomini. «In Italia nel 2010 era stata prevista per le lavoratrici del settore privato una progressiva curva di equiparazione che si sarebbe esaurita nel 2026, ma per effetto della legge Monti-Fornero questo processo è stato accelerato e porta le lavoratrici ad avere un’età pari agli uomini già nel 2018», sottolinea la Uil.
Facendo un confronto con il resto d’Europa, l’età per il pensionamento di vecchiaia più bassa è prevista in Francia, dove l’accesso è a 60 anni per i nati prima del 1951, limite che viene incrementato fino a 62 anni per i nati dal 1955 in poi. In Svezia invece esiste una finestra compresa tra i 61 e i 65 anni di età entro la quale i lavoratori sono liberi di scegliere quando andare in pensione. Dallo studio risulta anche che in 21 Stati su 28 è previsto un innalzamento dell’età pensionabile con incrementi programmati o con l’adeguamento alla aspettative di vita, mentre in sette Stati (Belgio, Finlandia, Grecia, Lussemburgo, Malta, Slovenia, Svezia) non è in vista alcun tipo di incremento. In nove Paesi è in vigore o è previsto nei prossimi anni l’adeguamento dell’età in relazione all’aspettativa di vita (Bulgaria, Cipro, Danimarca, Italia, Lituania, Portogallo, Slovacchia, Olanda, Regno Unito). Ma i tempi degli incrementi possono essere più dilatati rispetto all’Italia. La Danimarca, ad esempio, prevede un innalzamento dell’età pensionabile legato all’aumento all’aspettativa di vita, con l’aggiornamento che interviene ogni cinque anni. In Portogallo invece l’adeguamento viene stimato anche in relazione alla tipologia di lavoro svolto. In Italia tale adeguamento è automatico e triennale (ma dal 2019 diventerà biennale) e, come si accennava, tra due anni farà alzare l’asticella a quota 67, mentre per gli altri grandi Paesi Ue questa soglia sarà raggiunta tra diversi anni. In Germania, ad esempio, l’età di accesso alla pensione è legata all’anno di nascita del lavoratore e toccherà i 67 anni nel 2030, quando si stabilizzerà senza ulteriori incrementi. «In Italia con i vari interventi sulla previdenza dal 2007 al 2011 si è effettuato un ripetuto innalzamento dell’età pensionabile di lavoratrici e lavoratori; da ultimo con la legge Fornero, che ha portato in brevissimo tempo l’età dai 65 anni previsti per la vecchiaia e dai 60 anni previsti per la pensione di anzianità ai 66 anni e 7 mesi attualmente necessari per l’accesso alla pensione», sottolinea ancora lo studio della Uil.

Proprio per ammorbidire regole troppo rigide varate in una fase di emergenza economica per l’Italia, come quella del 2009-2011, dopo il varo di Ape e Rita con cui si è chiuso il primo round sulle pensioni la fase-2 di confronto tra le parti sociali vede in primo piano il congelamento dello scatto dell’adeguamento all’aspettativa di vita. Anche se pubblicamente il governo su questo fronte ha dato ben poche aperture, dato l’elevato debito pubblico che Bruxelles guarda molto da vicino, dietro le quinte si sta cercando una soluzione di compromesso.
Il dialogo governo-sindacati si concentra anche su requisiti meno rigidi per le pensioni delle donne (si è parlato di sconti di 6 mesi per ogni figlio), sul rilancio della previdenza complementare e sulla previdenza dei giovani. Su quest’ultimo fronte all’ordine del giorno c’è la pensione di base da 660 euro per chi ha iniziato a lavorare dal 1996 (quindi ricade interamente nel sistema di calcolo contributivo) in modo da attutire l’impatto di carriere che iniziano tardi e sono discontinue, due fattori che nell’ambito del calcolo contributivo rischiano di rendere l’assegno previdenziale pubblico decisamente basso, considerando che per le nuove generazioni l’attesa di vita è salita oltre gli 80 anni.
Anche per questo motivo si cercano nuove misure per rilanciare le adesioni alla previdenza complementare, che a un decennio di distanza dall’avvio dell’attuale sistema non è ancora decollata. Su questo fronte interviene anche la legge sulla Concorrenza, approvata in agosto alla fine di un lungo e travagliato iter, che ha introdotto alcune novità in materia. In particolare, la norma prevede che gli accordi collettivi potranno dare la libertà ai lavoratori di aderire ai fondi pensione anche soltanto con una quota minima del tfr maturando e non con l’intero importo come previsto finora (fermo restando il principio generale in base al quale l’adesione rimane su base volontaria e, in assenza di indicazione, la percentuale del conferimento del tfr resta al 100%). Si tratta di una piccola rivoluzione, che è passata in sordina ma che potrà avere conseguenze importanti sui portafogli dei lavoratori, alle prese con la sempre maggiore necessità di integrare la pensione pubblica. Proprio per capire l’impatto della nuova disposizione MF-Milano Finanza ha chiesto alla società di consulenza finanziaria indipendente Progetica una simulazione su tre profili (30-40-50enni). Sono stati messi a confronto due scenari (si veda tabella). Il primo considera il conferimento al fondo pensione del 100% del tfr, come previsto finora (per aderire ai fondi pensione il dipendente è obbligato a devolvere l’intero trattamento di fine rapporto, in più può versare un contributo proprio cui si aggiunge quello del datore di lavoro). E si ipotizza che il lavoratore scelga al momento del pensionamento di chiedere al fondo la metà del montante accumulato sotto forma di capitale e l’altra metà in rendita periodica (la normativa dà questa possibilità). Nel secondo scenario, per accogliere le novità del decreto Concorrenza, è stato esaminato il caso di un lavoratore che conferisca al fondo soltanto il 50% del tfr. L’altro 50% di tfr resta in azienda e fornirà un capitale, cioè la liquidazione finale erogata dal datore di lavoro a fine rapporto. Per quanto riguarda la metà versata al fondo, si ipotizza che il lavoratore opterà soltanto per la rendita (a differenza dell’ipotesi precedente di conferimento al fondo del 100% del tfr).

Che cosa emerge? Che il motore dei fondi pensione permette di far fruttare meglio il tfr, ovviamente mercati permettendo. E che la tassazione di vantaggio della previdenza complementare rappresenta un plus da non sottovalutare. «La fiscalità agevolata dei fondi pensione e l’aiuto offerto dai mercati confermano la maggior efficienza di una forma di previdenza integrativa», spiega Andrea Carbone di Progetica. «Il capitale che si può ottenere versando l’intero tfr a un fondo pensione con un profilo di rischio medio è maggiore del tfr lasciato in azienda e in più si otterrebbe una rendita vitalizia».
Le simulazioni arrivano a conclusioni simili anche nel caso di un profilo di rischio basso, ovvero con un maggior contenuto di obbligazioni. Ad esempio, un trentenne che oggi guadagna 1.500 euro netti e che versa l’intero tfr in una linea a rischio medio (70% azioni, 30% obbligazioni) può ottenere alla pensione un capitale di 62.700 euro e una rendita annua di 3.106 euro. Mentre lo stesso lavoratore che decidesse di iscriversi al fondo devolvendo metà del tfr, al momento di ritirarsi avrebbe accumulato in azienda 39.300 euro e il comparto scelto gli frutterebbe un assegno annuo sempre di 3.106 euro. «La nuova possibilità offerta dalla legge sulla Concorrenza potrebbe invogliare chi finora ha preferito non conferire il tfr ai fondi», osserva Carbone. Magari mettendo nel fondo una quota minima di tfr. «In ogni caso le simulazioni confermano che la previdenza complementare offre maggiori possibilità di integrazione rispetto al mantenimento del tfr in azienda, soprattutto nel lungo periodo», prosegue Carbone.
Nei prossimi mesi si capirà se le nuove disposizioni saranno in grado di aumentare la diffusione dei fondi pensione in Italia o se saranno necessari interventi più incisivi. «La vera novità tuttavia potrebbe essere quella di adottare modelli utilizzati all’estero per incentivare la previdenza integrativa: ad esempio, rendere automatico il conferimento del tfr a un fondo, lasciando poi il lavoratore libero di spostarlo in azienda», suggerisce Carbone. Peraltro la stessa legge sulla Concorrenza prevede l’apertura di un tavolo di consultazione per avviare un processo di riforma della previdenza complementare con l’obiettivo di favorire l’educazione finanziaria dei lavoratori italiani. (riproduzione riservata)

A chi servono davvero Ape e Rita
di Andrea Carbone*

Con i recenti decreti del governo, la possibilità di aderire all’Anticipo pensionistico (Ape) volontario (che si affianca all’Ape social per le categorie svantaggiate) e alla Rendita integrativa temporanea anticipata (Rita) diventa sempre più vicina. In attesa degli ultimi importanti dettagli, è dunque tempo di iniziare a riflettere sulle situazioni nelle quali Ape e Rita sono più utili per lavoratori e pensionandi. A partire dai punti in comune: Ape e Rita non sono per tutti, ma riguardano chi
ha compiuto 63 anni, con 20 anni di contribuzione (e possono essere richieste insieme o singolarmente, oltre a essere iniziative sperimentali fino a fine
2018). L’Ape volontario è dedicato a tutti i lavoratori iscritti all’Inps e consente, all’interno di alcuni vincoli, di chiedere una parte della pensione ma-
turata con un anticipo fino a tre anni e sette mesi rispetto all’attuale requisito di vecchiaia, ovvero 66 anni e sette mesi (grafico in pagina).
Se si decide di non aderire all’Ape, i flussi economici sono prevedibili: fino ai 66 anni e sette mesi si può contare sul proprio stipendio, oppure bisogna attendere l’età della pensione se si è disoccupati senza più ammortizzatori. Invece coloro che intendano richiedere l’Ape volontaria (la domanda si fa all’Inps ma prima bisogna richiedere allo stesso istituto l’idoneità ad accedere all’anticipo) continuano a contare sul proprio stipendio, se occupati, fino a 63 anni. Durante i mesi dell’anticipo, che vanno da un minimo di sei fino al massimo di 43, si inizia a ricevere, sotto forma di prestito, una percentuale dell’assegno maturato finora e certificato dall’Inps. Il prestito è erogato da una banca e i tassi sono ancora in via di definizione. Il lavoratore può scegliere la percentuale in funzione delle proprie necessità, con un massimo tra il 75 e il 90%, a seconda del numero di mesi di anticipo. La novità di questi giorni è che il lavoratore deve decidere se intende coprirsi dall’eventualità che il requisito attuale di vecchiaia di 66 anni e sette mesi possa spostarsi più in là a seguito dell’incremento della speranza di vita; in tale caso il prestito sarebbe adattato alla nuova situazione, modificando la rata da rimborsare. Finiti i 43 mesi dell’anticipo, la pensione che si riceve viene decurtata per 20 anni da varie componenti: la restituzione del capitale, il pagamento degli interessi sul prestito, il pagamento di una polizza che garantisce la banca in caso di prematura scomparsa del pensionato, oltre a una piccola quota dedicata a un fondo di garanzia. Trascorsi 20 anni, la pensione torna normale. L’Ape conviene dunque? La risposta varia caso per caso innanzitutto perché ogni individuo o famiglia dovrà valutare la propria condizione. Da un punto di vita quantitativo invece il simulatore che dovrebbe essere messo a disposizione dall’Inps, permetterà di fare esempi numerici concreti. La Rita è una forma di flessibilità con gli stessi requisiti di accesso dell’Ape (è destinata agli iscritti
ai fondi pensione che hanno ricevuto dall’Inps l’idoneità ad accedere all’Ape), ma senza prevedere un prestito oneroso, in quanto la misura consente di
anticipare, per un periodo massimo di tre anni e sette mesi, la riscossione dei propri risparmi investiti nel fondo pensione, avvalendosi, in tutto o in parte,
della posizione accumulata. Con la Rita al lavoratore è data la facoltà di scegliere quanta parte dei propri versamenti integrativi incassare per ottene-re una rendita negli anni dell’anticipo. Facendo il caso estremo, un lavoratore che decidesse di anticipare interamente quanto maturato azzererebbe la rendita integrativa ottenibile dai 66 anni e sette mesi. In attesa degli ultimi dettagli, è bene che ogni lavoratore nei dintorni dei 63 anni inizi a riflettere sulle possibilità che Ape volontaria e Rita gli offrono. Rimane valido per tutti i lavoratori il consueto consiglio: chi può risparmiare risorse oggi in vista del proprio futuro è bene che inizi o continui a farlo, da subito. (riproduzione riservata)*partner di Progetica

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