di Paola Valentini
Piacerà agli italiani l’Ape che sta preparando loro il premier Matteo Renzi? I dettagli sono stati discussi nei giorni scorsi al tavolo di lavoro tra Governo e sindacati. Il tempo stringe perché il pacchetto sulla previdenza entrerà nella prossima legge di bilancio. Il 21 settembre ci sarà il prossimo incontro politico con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini e il ministro del lavoro Giuliano Poletti. Il pilastro fondamentale delle misure che il Governo vuole introdurre nel sistema previdenziale riguarda l’Ape, l’anticipo pensionistico che permetterà di anticipare a 63 anni, ovvero al massimo tre anni e sette mesi, l’uscita dal lavoro rendendo più flessibile la riforma Fornero del 2012 che aveva alzato drasticamente fino a 66 l’età per ritirarsi dal lavoro abolendo le pensioni di anzianità. Nel 2016 e 2017 per effetto dell’indicizzazione alla speranza di vita, l’età del ritiro è salita a 66 anni e 7 mesi (nel biennio fanno eccezione le lavoratrici dipendenti private: 65 anni e 7 mesi).
Nannicini ha chiarito che di questa opportunità potranno usufruire le varie categorie di lavoratori: dipendenti, autonomi (anche con partita Iva della gestione separata Inps) e gli statali. Si stima che la platea comprenda circa 350 mila persone. Chi opterà per l’Ape avrà, per gli anni che mancano alla pensione, da uno a tre anni e sette mesi, appunto, un assegno mensile erogato dall’Inps ottenuto con un prestito erogato dalle banche. Il finanziamento dovrà poi essere restituito in 20 anni con rate costanti che saranno prelevate dalla pensione. Come accade per i mutui, ci sarà da pagare anche il tasso di interesse per il finanziamento della banca, oltre all’assicurazione che copre il rischio che il lavoratore muoia nei 20 anni. In ogni caso ci sarà una parte di lavoratori agevolati per i quali lo Stato si farà carico di rimborsare il prestito: le parti stanno discutendo su questo punto. Potrebbero essere ricomprese categorie particolari, come chi svolge lavori pesanti e i disabili, con un reddito lordo sotto i 1.500 euro lordi (1.200 netti). Tutto dipenderà dai margini di spesa che l’Europa concederà.
Stando ai calcoli fatti da Nannicini, su una pensione di 1.000 euro netti, ovvero 12 mila euro l’anno, l’Ape costerebbe per 20 anni 50-60 euro al mese per ogni anno di anticipo. Significa che se una persona vuole uscire tre anni prima, guadagnando 1.000 euro netti al mese, dovrà rinunciare ogni mese a circa 150-180 euro, in totale 36 mila euro (considerando 150 euro) in 20 anni che corrisponde appunto all’importo della pensione incassata nei tre anni. La penalizzazione potrebbe essere compresa, secondo quando afferma Nannicini, tra il 15% e il 18%. Ma è davvero così?
Alla fine la variabile chiave è proprio quella del costo. Visto il basso importo medio delle pensioni, è probabile che molti si chiedano se potranno permettersi decurtazioni a due cifre pur di anticipare da uno a tre anni la pensione. Insomma occorre capire se il gioco vale la candela. Per verificare il costo dell’Ape, MF-Milano Finanza ha chiesto alla società di consulenza finanziaria indipendente Progetica una simulazione considerando sia lavoratori dipendenti sia gli autonomi sulla base di tre fasce di reddito (1.500, 2 mila e 3 mila euro). Le simulazioni (riportate nelle tabelle) ipotizzano che sia gli interessi sul prestito, ipotizzati al 2%, sia la copertura assicurativa in caso di premorienza siano a carico del lavoratore (due voci che Nannincini non considera nelle sue stime). «I bonus e gli sgravi previsti» , conferma Andrea Carbone di Progetica, ««sarebbero infatti applicabili solo a lavoratori inoccupati o in altre situazioni disagiate, con pensioni inferiori ai 1.200 netti, 1.500 lordi».
Per le proiezioni Progetica ha utilizzato il tasso del 2% perché il tasso d’interesse attuale per un mutuo a tasso fisso a 20 anni (Eurirs) è dello 0,88% circa. A questo va aggiunto lo spread che le banche applicherebbero all’Ape. Considerando i valori più vantaggiosi presenti sul mercato e quelli massimi rilevati da Banca d’Italia comprensivi di tutte le spese (3,1%), sarebbe possibile ipotizzare un tasso finito compreso tra il 2% e il 3% circa. «Nelle elaborazioni si è simulato uno scenario nel quale il potere contrattuale dello Stato nei confronti delle banche porterebbe ad un tasso finito del 2%. Naturalmente, qualora i tassi applicati fossero superiori, le penalizzazioni per i lavoratori sarebbero maggiori rispetto a quanto simulato». sottolinea Carbone. I risultati?
Rispetto all’ipotesi di base in cui il lavoratore andasse in pensione con i normali requisiti di vecchiaia «l’anticipo tra 19 e 47 mesi porterebbe a una riduzione della pensione per i profili simulati compreso tra il 3,1% e il 12,1%, ciò è dovuto ai minori contributi versati e al più basso coefficiente di trasformazione in rendita», spiega Carbone. Questo accade durante il periodo di anticipo perché ovviamente se si smette di lavorare si versano meno contributi e inoltre per via della maggior speranza di vita, rispetto al caso in cui il lavoratore vada in pensione più tardi, scattano coefficienti più severi di trasformazione del capitale accumulato in assegno previdenziale. Alla fine del periodo di anticipo, ovvero quando il lavoratore arriva a compiere l’età per la pensione di vecchiaia, scatta il rimborso. «La rata di restituzione del prestito e la copertura assicurativa abbasserebbero ulteriormente l’assegno per i 20 anni successivi all’anticipo, per un valore compreso tra il 14,6% e il 37,9%», afferma Carbone. Ad esempio un dipendente classe 1954 con un reddito netto di 3 mila euro, nel 2017 può andare in pensione a 63 anni con l’Ape. E avrebbe durante l’anticipo un taglio della pensione del 12,1% che sale al 37,9% nei 20 anni successivi. In termini assoluti ciò vuol dire che questo lavoratore, che senza flessibilità avrebbe ottenuto un assegno pubblico stimato in 2.446 euro, durante l’anticipo otterrà 2.149 euro e successivamente si dovrà accontentare di 1.520 euro. Un dipendente con un reddito netto di 2 mila euro, classe 1953, che può anticipare il ritiro di 35 mesi, nel 2017 a 64 anni (al posto dei previsti 66 anni e 11 mesi), si vedrà tagliare la pensione dell’8,9% durante questo periodo. Poi per 20 anni il taglio salirà al 28,5%. Gli impatti dell’Ape sono stati stimati da non solo sull’importo dell’assegno pensionistico ma anche sulla ricchezza a vita media. «Per maggiore chiarezza l’operazione va vista confrontando la ricchezza complessiva ottenibile in base alla vita media, pari alla somma delle pensioni percepite», avverte Carbone. Confrontando i due scenari, ovvero con o senza flessibilità, la perdita di ricchezza sarebbe compresa tra il 7,3% ed il 19,8%. «Le elaborazioni confermano che, nel caso interessi e copertura assicurativa fossero interamente a carico del lavoratore, l’Ape sarebbe penalizzante in termini economici, pur consentendo di anticipare fino a 47 mesi l’entrata in pensione. Differente», conclude Carbone, «sarebbe la situazione per chi fosse inoccupato, dove i previsti bonus e sgravi fiscali potrebbero rendere l’operazione meno onerosa da un punto di vista economico, con il sicuro beneficio di iniziare da subito a percepire una pensione». (riproduzione riservata)

Bisogna risparmiare 330 euro al mese

Mind the gap, ovvero attenzione alla scorta di risparmio necessario per mantenere in pensione lo stesso tenore di vita dell’età lavorativa. A stimare questo vuoto da colmare ha pensato Aviva che ha analizzato il gap dei piani pensionistici europei, con valori espressi in percentuale sul pil 2016. Per l’Italia i calcoli della compagnia assicurativa inglese stimano che la cifra che i circa 25 milioni futuri pensionati tra il 2017 e il 2057, dovranno risparmiare per assicurarsi uno standard di vita adeguato quando si ritireranno ammonta a 3.960 euro pro-capite all’anno, pari a 330 euro al mese. In totale 99 miliardi di euro, circa il 6% del pil nazionale. E’ il valore più basso tra i Paesi europei analizzati, con uno scarto di oltre 10 punti percentuali rispetto al più alto, quello della Spagna (17%), e ciò in virtù del sostegno fornito dallo Stato ai cittadini italiani che però rischia di essere sempre meno presente nei prossimi anni visto l’elevato debito del Paese.
La spesa pubblica italiana per le pensioni attualmente ammonta al 15,8% del pil, a fronte di una media Ocse del 7,9%. Inoltre, nonostante il tasso di sostituzione (reddito da pensione in percentuale sull’ultimo stipendio) sia inferiore al 70% suggerito dall’Ocse, l’Italia si colloca tra le prime posizioni della classifica europea (49%), preceduta solo da Polonia (58%) e Francia (53%). Per via dei livelli di risparmio inadeguati, tuttavia, i tassi di sostituzione sono destinati a diminuire ulteriormente anche in Italia, dove si stima che il tasso si attesterà al 44% nel 2047. A questo proposito lo studio è stato affiancato da un’indagine sulla propensione al risparmio che evidenzia come la metà degli europei intervistati tema che non avrà denaro a sufficienza al momento della pensione, ma solo un terzo stia prendendo provvedimenti. In Italia, a fronte del 44% che esprime preoccupazione, solo il 35% si sta preparando. Interrogati su come finanzieranno il proprio pensionamento, gli italiani rispondono con un mix di strategie. Tra le principali: il 33% utilizzerà la prima casa come fonte di reddito, il 19% ricorrerà alla pensione privata, il 18% sta risparmiando regolarmente e il 17% lavorerà oltre l’età pensionabile. Viste le somme ingenti e l’elevato debito pubblico dell’Italia, che ha appena aggiornato un altro record (2.252 miliardi), l’azione dello Stato non potrà colmare il divario, se non insieme a una maggiore propensione al risparmio da parte dei cittadini. «Oggi più che mai il gap pensionistico è una questione di primaria importanza non solo per l’Italia, ma per l’Europa intera» , spiega Alberto Vacca, chief investment officer di Aviva. «Per risolvere questo problema è auspicabile che tutti maturino prima possibile la consapevolezza di dover integrare i propri contributi pensionistici con altre forme di risparmio». Lo studio si conclude con un’analisi delle aree di intervento da parte di legislatori ed enti pensionistici che possano incoraggiare il risparmio, favorendo la stabilità dei sistemi previdenziali nazionali, l’accesso a piani pensionistici integrativi, la formazione in ambito finanziario e l’informazione ai cittadini sulla propria situazione personale.
L’Italia ha già avviato diverse misure, attraverso le riforme pensionistiche del 2007 (maggiori incentivi a stipulare pensioni a contributo volontario, trasferimento automatico del tfr nel fondo pensione) e del 2011 con l’aumento dell’età pensionabile che però, essendo stato introdotto senza margini di scelta per il lavoratore, ora con l’Ape si cerca di rendere flessibile, seppur con penalizzazioni.
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