di Francesca Vercesi
Una famiglia su due partecipa ai mercati finanziari. E i fattori principali che influisceono sulla decisione di investire sono la disponibilità di prodotti a capitale protetto o a rendimento minimo garantito (72% degli investitori), la fiducia nell’intermediario finanziario (come riferito dal 53%) e i costi bassi (poco più del 40%). E’ quanto emerge dal Rapporto della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane per il 2016 presentato nei giorni scorsi a Roma e basato su indagini campionarie di Gfk Eurisko. La sensibilità al tema dei costi è dunque alta tra i risparmiatori italiani. Una conferma arriva anche dall’Indagine 2016 sul risparmio di Intesa Sanpaolo e Centro Einaudi: dallo studio risulta che tra le motivazioni che spingono molti investitori a preferire la liquidità in questa fase c’è proprio l’assenza di commissioni elevate. D’altra parte una fetta della ricchezza degli italiani pari a circa 23 miliardi di euro l’anno va a remunerare chi consiglia e vende prodotti d’investimento, tra reti bancarie, consulenti e strutture commerciali, soggetti che percepiscono circa due terzi delle commissioni pagate dai clienti. Questa è la stima fatta da AdviseOnly dell’ammontare complessivo delle commissioni retrocesse ai venditori. Il punto è che ora, difficile com’è fare performance superiori al mercato, vengono al pettine i nodi di un fenomeno da sempre presente in Italia. Spiega Raffaele Zenti, partner fondatore di AdviseOnly: «Le sgr che dipendono per il collocamento dalle reti bancarie e di promotori devono mantenere commissioni alte, altrimenti non ci sono margini sufficienti a remunerare i collocatori con le retrocessioni». L’esperto si è occupato di calcolare il monte retrocessioni, appunto 23 miliardi, nell’ambito di fondi comuni, gestioni patrimoniali, prodotti assicurativi come unit-linked e gestioni separate, fondi pensione e altri prodotti previdenziali. Ma con rendimenti lordi attesi scesi dal 3,9% del 2013 al 2,3% di oggi (come ha calcolato Equita a giugno), gli asset manager dovranno affrontare un calo graduale e fisiologico delle commissioni.
Precisa ancora Zenti: «il trend va verso una diminuzione dell’asimmetria informativa e una diminuzione dei livelli commissionali. Complici: la maggior trasparenza imposta da Mifid II su che cosa è commissione di gestione e che cosa è consulenza, la crescita del mercato degli Etf, un miglioramento della consapevolezza dei risparmiatori, la comparsa dei roboadvisor, l’avvento del block-chain, il rinnovo generazionale dei risparmiatori. Tutto spinge in quella direzione». Intanto, ribadisce Morningstar, all’interno dell’edizione 2016 del report «European Fund Expenses are Decreasing in Percentage», i fondi domiciliati in Belgio e in Italia risultano i più cari d’Europa con spese correnti ponderate, rispettivamente, dell’1,47% e dell’1,42%. Poi vengono Germania (1,25%) e Spagna (1,21%). Anche nell’analisi precedente, pubblicata nel 2013, questi mercati erano i più cari d’Europa, ma rispetto a tre anni fa l’Italia ha registrato un aumento dei costi (1,33% nel 2013).
Al contrario per il Belgio c’è stata una diminuzione (1,53% nel 2013), seguendo una tendenza discendente comune in quasi tutta Europa, tranne appunto l’Italia, la Danimarca, la Germania e la Spagna. Quest’ultimo Paese ha sperimentato il maggior incremento (+17 punti base all’1,21%), seguita dall’Italia (+ 9 punti base dall’1,33% all’1,42%). Mentre, e gli asset manager lo sanno bene, i costi ponderati per il patrimonio in Irlanda e Svizzera (domicili prevalentemente istituzionali e high net worth) sono i più competitivi in termini di costi rispetto alla media europea (0,62% contro l’1%). Nel suo report Morningstar fa un’analisi dettagliata dei costi di circa 54 mila classi disponibili alla vendita in Europa.
Emerge che nel continente le spese correnti ponderate per il patrimonio sono calate in media all’1% nel 2016, contro l’1,09% del 2013. Peccato che, in termini assoluti, gli investitori paghino di più rispetto al 2013, in quanto il patrimonio gestito è aumentato più di quanto siano diminuite le commissioni. Tiene a sottolineare Nikolaj Holdt Mikkelsen, capo-analista di Morningstar in Danimarca e autore della ricerca: «Per gli investitori è una buona notizia che i costi dei fondi in Europa stiano diminuendo ma bisogna prestare molta attenzione nella scelta di un fondo per concludere un buon affare. La maggiore penetrazione delle nuove clean share class ha portato a una diminuzione dei costi dei fondi in alcuni mercati, ma altrove gli investitori stanno invece pagando in media di più rispetto al 2013, quando Morningstar condusse uno studio simile. Il report 2016 mostra come i fondi costosi tendono a rimanere tali nel tempo, così come quelli economici difficilmente diventano più cari. Questo significa che le attuali commissioni sono un forte indicatore predittivo del livello dei costi futuro».
Afferma l’esperto di AdviseOnly: «occorrerebbe aumentare la produttività e affiancare la componente umana a un utilizzo intelligente della tecnologia. Questo permetterebbe di ampliare anche la base clienti, colmando l’advisory gap, ossia andando a servire quella vasta porzione di risparmiatori che hanno bisogno di consulenza finanziaria ma non sono abbastanza redditizi con il modello di business attualmente prevalente». La torta c’è, ed è grande: «23 miliardi di euro circa di costi di distribuzione che possono essere aggrediti da operatori più smart. Il rischio è che arrivi qualche operatore dall’estero, estraneo all’attuale modello di business, e si getti sulla torta», conclude Zenti. Qualcosa si sta già muovendo, anche se lentamente. (riproduzione riservata)
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