di Stefania Peveraro
assicurazioni
Le assicurazioni italiane associate ad Ania alla fine dello scorso marzo avevano investito in fondi di credito o debito ben 6,9 miliardi di euro dai 4 miliardi di fine marzo 2015, pari a circa il 7% del totale degli attivi a copertura delle riserve tecniche (dal 6% di un anno prima), secondo l’ultima indagine dell’associazione sugli investimenti utilizzati presentata lo scorso luglio, a cui hanno aderito compagnie rappresentanti il 72,5% del mercato. Tuttavia la maggior parte di questi denari è stata convogliata su fondi esteri, con aziende estere come target di investimento.

Quest’ultimo dato non emerge dallo studio dell’Ania ma basta incrociare i numeri per rendersene conto. A fine 2015 infatti Aifi (l’associazione dei fondi di private equity, venture capital e private debt) e l’Osservatorio Minibond del Politecnico di Milano avevano calcolato che i fondi italiani di debito avevano raccolto dagli investitori impegni per soltanto923 milioni di euro, di cui su un target complessivo di 5,5 miliardi. E quei 923 milioni, ovviamente, contavano molte tipologie di investitori, tra cui qualche assicurazione. Ciò significa che i capitali investiti dalle compagnie italiane nel debito delle pmi si sono limitati a poche decine di milioni, mentre la parte del leone l’hanno fatta il fondo di fondi del Fondo Italiano d’Investimento e le banche.

E tutto questo accade, sebbene l’investimento in private debt, cioé in debito di pmi non quotate, generi flussi di cassa di lungo periodo che sono perfettamente coerenti con quelli delle assicurazioni, fondi pensione e delle casse di previdenza, in termini di duration e prevedibilità, caratteristica che invece non ha il private equity. Ma paradossalmente le assicurazioni sono più attive sul fronte del private equity. L’anno scorso le compagnie hanno contribuito per l’11,7% al totale della raccolta, mentre fondi pensione e casse di previdenza si sono spinti sino al 18,6%. In ogni caso, stiamo parlando comunque solo di 1,3 miliardi di euro di investimenti in private equity per le assicurazioni dal 2010 e di 1,9 miliardi per fondi e casse di previdenza su un totale di poco meno di 13 miliardi.

Uno dei problemi, infatti, è che i fondi di debito italiani sono appena nati e quindi non hanno un track record da presentare agli investitori. Non solo. nella maggior parte dei casi sono di piccole dimensioni, caratteristica questa comune anche ai fondi diprivate equity, e un investimento da una decina di milioni risulta ininfluente, nel bene e nel male dal punto di vista di chi ha gestisce asset per decine di miliardi di euro, come è il caso di grandi assicurazioni, casse di previdenza e fondi pensione. E investire di più in un veicolo piccolo non è possibile, perché per regolamento questi investitori non possono comprare una percentuale troppo elevata del fondo, spesso si parla di un tetto del 10-15%. È evidente, quindi, che a quel punto se un investitore prevede di riservare una quota del patrimonio agli investimenti alternativi, sceglierà con più probabilità di investire in un grande fondo internazionale con buon track record.

Tornando agli investimenti delle assicurazioni italiane, la maggior parte dei flussi (15.6 miliardi) è andata a sottoscrivere private placement di bond. Di questa cifra, dice Ania, soltanto il 60% rappresenta emissioni di aziende italiane. E di questo totale la maggior parte dei capitali è andata a sottoscrivere titoli di grandi emittenti industriali. Sul gfornte delle emissioni di medie dimensioni a fare la parte del leone è stato invece il gruppo assicurativo Prudential che, tramite la controllata Pricoa Capital, in un anno e mezzo ha sottoscritto 4 private placment (Crif, Epta, CarcoeAma). Gli stessi problemi sorgono quando fondi pensione e assicurazioni si propongono di investire direttamente in minibond o in titoli azionari di pmi quotati all’Aim.

La dimensione dell’investimento singolo risulta estremamente ridotta. Da qui la necessità di promuovere la creazione di veicoli specializzati che a loro volta possano avere dimensioni adeguate ad attrarre investitori istituzionali di peso. Lo stesso potrebbe avvenire per titoli di debito di pmi non quotate e in difficoltà nelle quali fondi di investimento specializzato decidessero di investire nuova finanza per supportare il rilancio del business.
Per convogliare risorse sufficienti sull’economia reale italiana potrebbe bastare un severa moral suasion associata ai già presenti incentivi fiscali (si veda il credito d’imposta per i fondi pensione che investono nell’economia reale). L’incentivo fiscale, infatti, vale in presenza di qualunque investimento nell’economia reale di un Paese europeo, e quindi il rischio è che il beneficio finisca ai grandi fondi esteri, lasciando gli italiani con un palmo di naso.
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