di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’Italia non riesce a uscire dalla palude della recessione. Dopo l’Ocse e Bankitalia, anche il Fondo Monetario Internazionale ha tagliato le stime sul pil. Secondo l’Fmi l’economia italiana si contrarrà anche nel 2014, con il pil che calerà quest’anno dello 0,1%. Contrazione che fa seguito al -1,9% del 2013 e al -2,4% del 2012. 
Dall’inizio della crisi si è perso circa il 10% di prodotto interno lordo. Quella che Goldman Sachs definisce come la Grande Stagnazione non è quindi ancora finita. Uno scenario che peserà anche sulle future pensioni. E che riapre l’allarme sui conti pubblici.

 

Sempre l’Fmi ha ricordato che il debito italiano salirà ancora, toccando il picco, al 136,4% del pil nel 2014, per poi scendere progressivamente. Sulla base di questi dati il rapporto ricorda che «il debito italiano è sostenibile ma esposto a significativi rischi». Da qui la necessità di portare avanti il piano di riforme annunciato dal premier Matteo Renzi. Ma non solo. Il Fondo ricorda che la spending review è uno «strumento importante», ma le analisi suggeriscono che «ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni». La spesa previdenziale, afferma il Fondo, è la più alta nell’area euro e per lo Stato rappresenta il 30% del totale delle uscite. L’Italia spende sette volte di più per un anziano che per un non anziano». Torna quindi in primo piano il tema della spesa pensionistica, che già era stata aggredita dalla riforma Monti Fornero, approvata nel pieno della crisi dell’autunno 2011, e che aveva esteso il metodo contributivo pro quota a tutti i lavoratori, cancellando anche le pensioni di anzianità. E quindi rinviando l’addio al lavoro di molti lavoratori.

Ma la riforma non ha potuto sanare una sperequazione, insita nel fatto che le pensioni pagate oggi e quelle su cui potranno contare i lavoratori in uscita nei prossimi anni saranno molto più ricche di quelle su cui potrà contare chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996.

La coesistenza dei due sistemi è destinata a durare ancora a lungo visto che soltanto dal 2050 in poi l’intero stock di pensioni in pagamento sarà basato sul sistema contributivo. Un intervento per ridurre questa spesa difficilmente potrà riguardare le pensioni dei giovani che già dovranno pagare a caro prezzo la recessione di questi anni. Il loro assegno sarà infatti determinato in base a un insieme di variabili. A partire dall’andamento dell’economia. Uno studio del fondo pensione negoziale Fondenergia ha calcolato che per ogni punto percentuale di variazione del pil il tasso di sostituzione del primo pilastro (ovvero la percentuale dell’ultimo stipendio che si percepirà come pensione) cambia in media di 8 punti percentuali. Un dato che certo non è rassicurante visto che dall’inizio della crisi il pil è crollato di quasi il 10% e l’uscita dalla recessione è stata rinviata al 2015. La bassa crescita economica ha poi anche un effetto sugli stipendi, che restano al palo e quindi fossilizzano i contributi versati. Come ha ricordato più volte Alberto Brambilla, professore dell’Università Cattolica e promotore di Itinerari Previdenziali, senza sviluppo avremo prima lavoratori pagati poco e poi pensionati deboli.

La società di consulenza indipendente Progetica ha elaborato per Milano Finanza una simulazione sulla variazione dell’assegno con una crescita allo 0,5% invece dell’1,5% e ha inserito una colonna sulla variazione percentuale dell’assegno pensionistico (oltre ai punti assoluti). Dall’analisi si scopre che per il trentenne la variazione è intorno al 20%.

 

«I recenti dati sul pil confermano una volta di più lo stretto legame tra mondo del lavoro e mondo delle pensioni», dice Andrea Carbone di Progetica, «Se l’Italia non crescerà o crescerà poco, gli assegni pensionistici futuri saranno più leggeri a causa della crisi; la generazione di chi sta vivendo situazioni di precariato dunque non solo ha un problema per il presente, ma anche per il futuro. Per tanti motivi appare quindi urgente far ripartire la crescita e sostenere l’occupazione. Da un punto di vista individuale appare sempre più urgente occuparsi per tempo della propria pensione: provare a riflettere sul tenore di vita desiderato e atteso quando ci si ritirerà dal mondo del lavoro; e sulla possibilità di iniziare ad accantonare oggi risorse per il proprio futuro».

Nei giorni scorsi proprio il Commissario straordinario dell’Inps Vittorio Conti aveva ricordato in occasione di un seminario che «il pil ha un peso rilevante sulla pensione. Fa una notevole differenza, sul piano della prestazione pensionistica, se un giovane entra nel mercato del lavoro con una crescita di lungo periodo del pil dello 0,5% o dell’1,5% l’anno. Nel primo caso avrà una pensione inferiore anche del 20% rispetto a quella che percepirebbe nel secondo», ha detto Conti.

 

Se intervenire sulle pensioni future appare quindi una via difficile da percorrere visto che già esiste una forte disuguaglianza tra le pensioni che verranno percepite da chi oggi ha 30-40 anni e quelle dei loro padri, torna il tema di un intervento sugli assegni pensionistici più alti. Quest’estate l’idea lanciata in un’intervista dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, cioè intervenire sulle pensioni medio-alte per trovare risorse da destinare alla copertura degli esodati o di quelli che rischiano di diventarlo, ha scatenato molti malumori. Lo stesso Renzi ha preso le distanze dalla proposta di dare già in autunno una sforbiciata alle pensioni d’oro e d’argento. Ma in realtà il tema resta caldo. Il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, ha più volte dichiarato nei giorni scorsi che prima di fare ulteriori tagli alla sanità bisognerebbe intervenire sulle pensioni d’oro. Strada tuttavia non facile da percorrere. L’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi introdusse per primo il prelievo forzoso progressivo sulle pensioni a partire da 90 mila euro l’anno. Il taglio era del 5% tra 90 mila e 149 mila euro, del 10% sopra i 150 mila e del 15% per i redditi pensionistici oltre i 200 mila euro, circa 600 cittadini. La misura fu poi confermata dall’esecutivo Monti. Ma il contributo forzoso fu cancellato da una sentenza della Corte costituzionale che bocciò il provvedimento di Monti ritenendolo discriminatorio dal momento che riguardava solo i redditi dei pensionati e non di tutti i contribuenti. È stato poi il governo Letta l’anno scorso a reintrodurre il contributo di solidarietà per le pensioni oltre i 90 mila euro l’anno.

 

Mentre si è arenata in Parlamento la proposta di legge a firma Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) per fissare un tetto alle pensioni d’oro quando le stesse non corrispondano a contributi effettivamente versati. Una proposta che coinvolge tutte le pensioni basate sul metodo retributivo viene avanzata da tempo anche da Brambilla, secondo il quale la soluzione più equa sarebbe l’applicazione di un contributo di solidarietà su tutte le pensioni basate su questo metodo. Il contributo aumenterebbe in modo proporzionale all’entità della prestazione ai diretti interessati. Brambilla ricorda che su 16,7 milioni di pensionati 7 milioni percepiscono assegni pagati in tutto o in parte dallo Stato. «Questo perché in 65 anni di vita questi pensionati non sono riusciti a mettere da parte 15 anni di contribuzione piena e pertanto, siccome la loro pensione è bassa, lo Stato la integra con le maggiorazioni sociali e l’integrazione al minimo», ha ricordato Brambilla. Il suo ragionamento è proprio questo: «Tutti dovremmo essere uguali di fronte al Fisco, ci vuole quindi un prelievo progressivo su tutte le pensioni sapendo che tutte incorporano un vantaggio dovuto al sistema retributivo». Per Brambilla si potrebbe partire da aliquote di prelievo più basse per chi percepisce meno, per esempio lo 0,5% per il pensionato che riceve fino a 700 euro. Man mano che l’importo dell’assegno aumenta, aumenterebbe anche l’aliquota arrivando anche all’8%. Le risorse raccolte potrebbero servire ad abbattere il debito pubblico in modo da alleggerire la pesante eredità che devono sostenere le generazioni più giovani (quelle assunte dopo il 1996). Che non potranno contare su alcuna integrazione da parte dello Stato nel momento dell’addio al lavoro. (riproduzione riservata)