Di Anna Messia

Anche il settore della sanità integrativa appare in cerca di nuove vie di sviluppo e di un assetto più stabile ed efficiente. Da una parte ci sono le compagnie di assicurazione che stanno guardando a questo comparto con ritrovato interesse. Come Generali, per esempio, che ha recentemente annunciato di voler crescere nel settore degli employee benefits (che oltre alla sanità comprende anche la previdenza o gli infortuni per i dipendenti), nominando Sergio Di Caro nuovo responsabile di Geb (Generali Employee Benefit), la società del gruppo specializzata nel comparto dei servizi ai dipendenti. 
Poi ci sono i colossi come Axa o Allianz, ma pure gli operatori specializzati, come Unisalute, del gruppoUnipol Sai e player in crescita, come Reale Mutua. Finora le compagnie non hanno ottenuto grandi guadagni da questo ramo di attività, nonostante i costi delle coperture assicurative sanitarie, secondo una recente indagine di Towers Watson, siano superiori ad altri Paesi europei, con una media che nel 2014 si è attestata al 7,2%, contro il 2,3% della Francia, il 3% di Spagna e Germania, e il 5,4% del resto d’Europa. Un trend che, tra l’altro, appare in crescita, proprio in Italia, dove nel 2013 i costi erano in media del 6,2%, contro il del 6% dell’anno immediatamente precedente.

Dall’altra parte, però, ci sono le aziende, che non sono certo contente di pagare salate coperture sanitarie per i propri dipendenti e stanno cercando soluzioni per risparmiare «decidendo per esempio di bypassare il canale dei broker, che finora sono stati gli intermediari prediletti in questo mercato, negoziando direttamente con le compagnie di assicurazione», osserva Fabio Carniol, country leader di Towers Watson e amministratore delegato di Towers Watson Italia, «e non mancano neppure casi di società che stanno studiando forme di autoassicurazioni, che nelle grandi aziende americane sono ormai le più diffuse».

Quel che appare certo è che il mercato dei piani sanitari aziendali sia destinato a espandersi. 
Non solo perché la sanità pubblica è una coperta sempre più corta e meno calda, ma anche perché proprio i piani di assistenza sanitaria sono considerati essenziali nella politica di miglioramento del benessere e della produttività dalle stesse aziende che si stanno preparando sempre di più a rispondere a questa domanda. D’altronde è ormai evidente che il benessere e la salute dei dipendenti ha effetti direttamente proporzionali sulla produttività. Dalla stessa indagine di Tower Watson realizzata intervistando 892 aziende mondiali, di cui 65 in Italia, emerge che il 46% delle imprese italiane ha già messo a punto una politica di assistenza sanitaria e di gestione del benessere interno all’azienda, da realizzare entro i prossimi cinque anni. E un altro 38% delle società contattate da Towers Watson ha dichiarato di non aver ancora realizzato alcuna politica, ma che sta già pianificando di adottarne una entro il prossimo biennio. Insomma, le aziende sono in pieno fermento su questo fronte e il mondo degli employee benefit sembra essere alla vigilia di una grande rivoluzione. A questo punto bisognerà però capire quanto le compagnie di assicurazione riusciranno a rispondere a questa richiesta, e con quale profittabilità. «Le assicurazioni si stanno attrezzando, e ci sono ampi spazi d’innovazione, ma finora l’offerta è stata poco personalizzata, anche a causa anche dell’intermediazione dei broker», osserva Carniol. «Non ci sono, per esempio, polizze che premiano con costi più contenuti l’impegno delle aziende a investire sulla salute dei propri dipendenti». Eppure il 24% delle imprese italiane intervistate da Towers Watson ha previsto per esempio un check up biometrico per i propri dipendenti, per conoscere indice di massa corporea, pressione o colesterolo. Un altro 16% ha pianificato questi esami preventivi per il 2014 e l’11% li ha messi in cantiere per il 2015-2016. Mentre il 52% delle imprese contattate ha lanciato programmi di check un di prevenzione, per esempio per visite urologiche o mammografiche. Anche se c’è da aggiungere che i tassi di partecipazione dei dipendenti sono ancora limitati, pari per esempio solo al 35% nel caso dei check up di prevenzione. «Per riuscire ad avere agevolazioni sulle coperture sanitarie alcune imprese più virtuose sul fronte della prevenzione dei dipendenti stanno cercando di creare un rapporto diretto con le assicurazioni e questo potrebbe colpire i grandi broker che finora sono stati gli intermediari di questo mercato», osserva il manager, «ma ci sono sempre più imprese e fondi che valutano l’ipotesi del passaggio alla forma autoassicurata».

Un modello che negli Stati Uniti, mercato decisamente più avanzato in tema di employee benefit, sembra oramai dominare, specie tra le grandi aziende. Più del 90% delle imprese con oltre 5 mila dipendenti l’anno scorso aveva scelto forme di autoassicurazione, percentuale che nel 1999 era appena superiore al 60%. Ma anche l’80% di quelle che hanno un numero di dipendenti compreso tra mille e 5 mila ha optato per l’autoassicurazione, contro il 60% del 1999. Stessa tendenza nel Regno Unito.

Il modello autoassicurato, comunque, è già oggi quello prevalente in Italia, per le forme di assistenza sanitaria collettiva, con il 23% dei fondi sanitari e delle polizze collettive assicurate, a dispetto del 37% dei fondi sanitari integrativi che sono invece autogestiti. Il mercato intermediato, che vale oggi circa 3,3 miliardi, è formato poi per il 30% dalle polizze individuali e per il 10% da mutue autogestite. Un modello, quest’ultimo, che potrebbe essere riscoperto dalle imprese. «Ci sono grandi aziende che hanno scelto questa forma, come Fincantieri che ha aderito alla Mutua Cesare Pozzo», conclude Carniol, «e ci sono aziende che stanno studiando progetti per mettersi insieme e creare una massa critica sufficiente al lancio di una nuova mutua». Quelle forme di assistenza sanitaria che dominavano in Italia 40 anni fa, e che per anni avevano garantito la cura della salute degli italiani, potrebbero vivere insomma una seconda giovinezza. (riproduzione riservata)