Giovanni Pons

M ediobanca, la più conosciuta banca d’affari italiana, è a metà del guado, nel pieno di una fase di profonda trasformazione. Da poco più di un anno l’amministratore delegato Alberto Nagel ha coraggiosamente dato il via alla cosiddetta “uscita dai salotti”, con la conseguente vendita sul mercato di una grossa fetta del portafoglio partecipazioni. Parallelamente si è rafforzata la presenza della merchant bank a Londra, dove oggi lavora un team di 25 persone. Con l’intenzione di proiettarsi sempre più sui mercati europei per far concorrenza a quelle banche come Lazard e Rothschild, ma anche le meno conosciute Evercore, Ondra o Berenberg che nella consulenza per le grandi operazioni di M&A stanno portando via clienti a colossi americani come Jp Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley. Il cammino non è indolore, come dimostrano i bilanci. Dal 2008 al 2013 la dismissione di importanti partecipazioni ha causato un miliardo di euro di perdite, ma nel 2014 il team di Nagel è riuscito a realizzare plusvalenze per 840 milioni ottenute con la cessione di azioni Gemina, Intesa Sanpaolo, Saks, Rcs e bond convertibili Unicredit. Operazioni che insieme ai dividendi percepiti da Generali, hanno permesso di chiudere l’esercizio con un utile di 465 milioni. Inoltre, entro giugno 2015 piazzetta Cuccia uscirà definitivamente da Rcs e Telco. E con questo si può considerare chiusa per quella data l’epoca delle partecipazioni incrociate che avevano rappresentato il cuore della Mediobanca costruita dal fondatore Enrico Cuccia e dal delfino Vincenzo Maranghi. Ora però si tratta di trovare una nuova “mission” per la merchant bank e non sarà un percorso facile. «Mediobanca sta cercando di comprare un gestore di patrimoni all’estero per internazionalizzare il marchio. È ancora molto forte in Italia, avendo scommesso con lungimiranza sugli aumenti di capitale delle banche. I suoi uomini sono bravi ma fuori dall’Italia li conoscono ancora in pochi, le grandi operazioni le fanno Lazard, Rothschild o le grandi banche americane come Jp Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley ». La sintesi efficace è di un banchiere italiano che lavora per una grande banca d’affari internazionale e che spesso si è ritrovato gli uomini di piazzetta Cuccia dall’altra parte del tavolo. Il suo punto di vista conferma come la Mediobanca del futuro non sia ancora nitida all’orizzonte, alla costante ricerca di un modello di business che non le faccia perdere la sua vocazione di banca concentrata su alcune aree che richiedono una forte specializzazione e allo stesso tempo le permettano di far crescere la redditività in maniera soddisfacente per gli azionisti. Nell’imboccare questa strada, va subito detto, Nagel e il presidente Renato Pagliaro, hanno avuto e continuano ad avere il consenso della maggior parte degli azionisti, in primis l’Unicredit di Federico Ghizzoni e il francese Vincent Bollorè, che con l’assemblea di fine ottobre rinnoveranno il mandato triennale alla squadra di vertice. Il titolo Mediobanca in Borsa è tornato sopra la soglia dei 7 euro, lontano dai 2,5 euro dell’estate 2012, e tutto ciò fa sì che si gettino dietro le spalle anche le conseguenze dell’ultima grande battaglia dei salotti, quella che ha provocato l’estromissione della famiglia Ligresti e la consegna della Fonsai nelle mani dell’Unipol, i cui esiti giudiziari per il vertice di Mediobanca non sono ancora conclusi, mentre Bollorè a gennaio 2014 è stato sanzionato dalla Consob con 3 milioni di multa e diciotto mesi di interdizione dalle cariche nelle società quotate per aggiotaggio sui titoli Premafin (provvedimento contro il quale ha opposto ricorso). Certo, ogni tanto l’eco del passato torna a farsi sentire, come quando radio finanza ha cominciato a insinuare che la nomina di Stefano Marsaglia alla Mediobanca di Londra come capo dell’area Cib (Corporate and investment banking) sia stata suggerita, e forse imposta, da Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit e forse l’unico power broker rimasto in sella dopo l’uscita di scena di Cesare Geronzi e l’appannamento di Giovanni Bazoli. Di certo la nomina di Marsaglia non è stata accolta con favore dalla struttura interna di piazzetta Cuccia, che ha visto catapultato dall’esterno un livello di interlocuzione con l’amministratore delegato che prima non esisteva. Tuttavia secondo la versione “buonista” Marsaglia sta facendo dialogare positivamente le varie filiali europee di Mediobanca in modo da poter cogliere le varie opportunità che si presentano sui mercati. I mugugni potrebbero però continuare allorché il team londinese sotto la guida di Marsaglia si vada ingrandendo con innesti di nuove figure, ovviamente molto ben pagate, provenienti da Barclays, Deutsche Bank, Morgan Stanley. L’obbiettivo è quello di partecipare sempre più alle operazioni di capital market, soprattutto nel settore bancario, che interesseranno i vari mercati europei. In Grecia, per esempio, Mediobanca è riuscita a ritagliarsi un ruolo importante in tre dei quattro aumenti di capitale realizzati sinora e con Asset quality review e stress test in arrivo per le banche ci sarà ancora molto da fare. Sebbene alleggerita dalle partecipazioni azionarie, che tra l’altro assorbivano una grossa fetta di capitale, Mediobanca nella sua specificità può inoltre contare su altre due gambe dalle prospettive interessanti. Era stato infatti Cuccia a porsi per primo il problema della stabilizzazione della redditività della merchant bank, e aveva individuato nel credito al consumo un’area che poteva generare buoni frutti e in maniera costante. Così nacque la Compass che con una serie di acquisizioni avvenute negli ultimi anni è diventata leader di mercato e ora, attraverso un accordo con il Monte dei Paschi di Siena, cercherà di far leva sui clienti dei 2500 sportelli della banca sparsi sul territorio. La terza area di business in cui Mediobanca si cimenta è quella che con terminologia anglosassone viene definita “wealth management”, nella quale esistono realtà come CheBanca!, Banca Esperia e Compagnie Monegasque de Banque. La prima era nata negli anni del credit crunch proprio per permettere a Mediobanca una fonte di approvvigionamento alternativa ai mercati interbancari. È cresciuta bene e nelle fasi di più ampia liquidità dei mercati, come l’attuale, può sviluppare commissioni cercando di estendere l’attività alla consulenza finanziaria alle famiglie italiane i cui depositi sono alla ricerca di rendimenti più elevati. Banca Esperia, invece, non sta offrendo grandi soddisfazioni ai propri azionisti, se non una platea di clientela molto alta che viene sfruttata da Mediobanca anche per collocare i propri prodotti finanziari fabbricati a Londra. La coabitazione al 50% con Mediolanum non è ideale ma un riassetto può avvenire soltanto se la famiglia Doris ridimensionerà le proprie richieste. Altrimenti si rimarrà così. A questa galassia Nagel sta cercando di aggiungere un “alternative asset manager”, cioè un team di gestione di fondi specializzati su alcune particolari categorie di investimento, come l’immobiliare, il credito, i prestiti sindacati dei leveraged buy out. Tutto ciò permette agli uomini di piazzetta Cuccia di non spingere sull’acceleratore dei prestiti alle imprese, un’area che l’ha vista protagonista fin dal suo esordio. La stagnazione dell’economia italiana, infatti, non accenna a diminuire e i prossimi saranno ancora anni di crediti a rischio, con aumento delle sofferenze. L’esempio arriva dalla Burgo, la cartiera dove a inizio anni Duemila l’esposiz
ione complessiva aumentò fino a 1,4 miliardi. Con l’ultimo bilancio la partecipazione è stata svalutata del tutto mentre gli accantonamenti sul credito residuo di 473 milioni sono saliti al 55%. L’ultimo retaggio del passato è rappresentato dalla partecipazione di Mediobanca in Generali, oggi poco sopra al 13% ma per motivi regolamentari in discesa verso il 10% entro fine 2015. Anche a questi livelli il presidio sul Leone di Trieste dovrebbe essere salvo grazie al potenziale supporto degli altri soci italiani come Caltagirone e De Agostini, visto che la Banca d’Italia ha totalmente dismesso la sua quota attraverso la Cdp. Nella mente di Nagel Generali è diventata più laicamente uno stabilizzatore di redditività, visto il contributo che può dare in termini di ricavi e dividendi. In pratica una fonte di risorse per finanziare la crescita in altri settori o qualche acquisizione di boutique in giro per l’Europa. La strada verso la “normalizzazione” di Mediobanca prevede poi la dissoluzione del patto di sindacato, ora poco sopra al 30%, con tre o quattro soci forti che convivono senza alcun accordo tra di loro. Tuttavia, non si può escludere che tutti gli sforzi per trovare la nuova “mission” di Mediobanca potrebbero a un certo punto infrangersi contro il muro dell’ultima operazione di sistema: la fusione in Unicredit per rafforzare la presenza di quest’ultima nell’investment banking (così come Intesa Sanpaolo può contare sul braccio operativo di Banca Imi), per preservare Generali da eventuali appetiti dall’estero e magari per portare Palenzona alla presidenza di Trieste. Un’idea che però non troverebbe consenziente il socio forte Bollorè (in crescita dal 7,5 all’8%) e che proprio ultimamente ha rafforzato il suo feeling con Nagel grazie all’operazione Telecom-Telefonica-Vivendi. Un’alleanza che ha portato nelle casse della società francese, di cui Bollorè è socio forte e presidente, 4,65 miliardi di euro in contanti. Nei grafici qui sopra, le cifre del progressivo sfoltimento delle partecipazioni in portafoglio a Mediobanca e la riduzione degli impieghi del 20% circa tra il 2012 e il 2014 1 2 L’ad di Unicredit, Federico Ghizzoni (1) e il finanziere Vincent Bollorè (2), importanti azionisti di Mediobanca