di Marcello Bussi

I mercati hanno accolto con un sospiro di sollievo la vittoria del no al referendum sull’indipendenza in Scozia. Un’affermazione del sì avrebbe infatti portato grande incertezza, aumentando i timori di contagio nel resto d’Europa, prima di tutto in Catalogna, innescando una fuga di capitali da Londra e suscitando in definitiva dubbi sulla tenuta dell’intero Regno Unito. 
Il sollievo è però durato lo spazio di un mattino. Non c’è da stupirsi, d’altronde. Come ha osservato Bill O’Neill, capo dell’ufficio investimenti britannico di Ubs Wealth Management, «i mercati non avevano incorporato in modo aggressivo una vittoria del sì». «I mercati adesso potranno tornare a focalizzare la loro attenzione sull’economia e sui tassi d’interesse», ha sottolineato Mike Amey, capo del portafoglio in sterline di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo. La vittoria del sì, infatti, avrebbe costretto la Banca d’Inghilterra (BoE) a rinviare l’aumento del costo del denaro alle calende greche, mentre ora è tornato lo scenario antecedente il primo sabato di settembre, quando è stato diffuso il sondaggio che dava in testa gli indipendentisti: la BoE alzerà presto i tassi, nel primo trimestre dell’anno prossimo secondo la maggioranza degli economisti, addirittura a novembre per Barclays. Che questo implichi un rialzo significativo della sterlina, però, è tutto da discutere. 
Perché, in realtà, come ha osservato Guy Foster, capo delle strategie di Brewin Dolphin, «rimane ancora un sacco di incertezza». Ora, infatti, si apriranno i negoziati per una maggiore devoluzione di poteri alla Scozia, promessa dal premier britannico David Cameron durante la campagna referendaria. Certo, come ha detto Kevin Daly, economista di Goldman Sachs, «la natura di queste incertezze sarà meno rilevante per i mercati da quelle che sarebbero state innescate da una vittoria del sì». Ma queste nuove incertezze, secondo Peter Hensman, macro strategist di Newton Investment Management, nel lungo periodo peseranno sulle imprese, i cui «ritardi nelle decisioni di investimento rallenteranno la crescita, compromettendo le aspettative sui tassi di interesse più alti e indebolendo la sterlina». Il lungo periodo a cui fa riferimento Hensman non dovrebbe essere poi così lontano. Le elezioni politiche sono previste a maggio dell’anno prossimo e fra i temi principali della sfida elettorale ci sarà sicuramente la devoluzione. Nella sua prima dichiarazione dopo la vittoria del no, Cameron ha affermato che «proprio come gli scozzesi avranno più poteri, lo stesso dovrà valere per i cittadini di Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord». Ricalcando così le affermazioni fatte poco prima da Nigel Farage, leader dell’Ukip, il partito anti-Ue diretto concorrente dei Conservatori: «Sarò felice se la Scozia avrà più poteri solo se la stessa cosa varrà anche per l’Inghilterra». Il processo di devoluzione sarà lungo e in teoria potrebbe portare addirittura alla nascita di un parlamento inglese, così come esiste già quello scozzese. Mentre dovrà essere affrontata la cosiddetta questione West Lothian: la Scozia ha competenza legislativa in materie come sanità e istruzione, per cui i parlamentari di Westminster, siano eletti in collegi scozzesi o inglesi, non hanno voce in capitolo su queste materie in Scozia, mentre quelli eletti in Scozia hanno voce in capitolo sulle leggi che riguardano l’Inghilterra.

 

Per riequilibrare il tutto, quindi, le leggi che riguardano esclusivamente l’Inghilterra dovrebbero essere votate solo dai parlamentari inglesi. Ma a questo punto sarebbero ben poche le leggi votate da tutti i deputati eletti a Westminster. Invece di una dissoluzione traumatica c’è insomma il rischio di una dissoluzione soft del Regno Unito. Mentre tutto questo parlare di poteri all’Inghilterra non fa altro che rendere più forte Farage e aumentare le probabilità di successo del no al referendum sulla permanenza del Regno Unito che dovrebbe tenersi nel 2017. La vittoria del no in Scozia, inoltre, non ha affatto fermato l’effetto contagio. Il Parlamento regionale della Catalogna ha infatti subito approvato ad ampia maggioranza (106 deputati su 135) una legge per la convocazione di una consultazioni popolari non vincolanti, lo strumento scelto dal governo catalano per sottoporre alla popolazione una domanda sull’indipendenza dalla Spagna il prossimo 9 novembre. Referendum già dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale spagnola. È molto probabile che i rendimenti dei titoli di Stato spagnoli siano destinati a salire. (riproduzione riservata)