Pagina a cura di Silvana Saturno  

 

Aumentano fallimenti e liquidazioni d’impresa in Italia. Ma aumenta anche la voglia di non soccombere e di trovare soluzioni alternative per riuscire (magari con qualche sacrificio di troppo per i creditori) a tener su le saracinesche. Nei primi sei mesi dell’anno le chiusure d’impresa (procedure d’insolvenza o liquidazioni volontarie), secondo i dati di Cerved Group hanno raggiunto quota 45 mila, in aumento del 9,3% rispetto ad analogo periodo nel 2012. I fallimenti dichiarati sono cresciuti, per l’esattezza, del 12,3%, superando abbondantemente quota 7 mila a giugno, ma è il ricorso al concordato cosiddetto «tradizionale» (istanza di concordato con piano di risanamento) a ottenere le performance più eclatanti, visto che il ricorso a questo strumento, trainato probabilmente dal concordato «in bianco» al debutto nel 2012, è cresciuto dell’87,5%: più di 1.000 concordati fino a giugno 2013. Quello in bianco ha continuato l’exploit del 2012 con 2500 istanze nel primo semestre 2013.

A darsi da fare per non mollare, più di tutti è stata l’industria (+60,7% di procedure non fallimentari), seguono il settore delle costruzioni (+32%) e il terziario (+22%).

La buona volontà, tuttavia, non sempre va di pari passo con i risultati: dando un’occhiata alla realtà del tribunale di Milano, quello più attivo nel paese (267 procedure di concordato preventivo avviate dal 1° gennaio al 25 settembre 2013), risulta che quelli dichiarati inammissibili sono stati 85, circa un terzo, insomma, di quelli proposti.

«I numeri del concordato in bianco a distanza di un anno restano impressionanti» racconta a ItaliaOggi Sette Filippo Lamanna, presidente della sezione fallimentare del tribunale di Milano, «con esiti deludenti: non più di un terzo è arrivato a tradursi in concordati ammessi e ancora minore è il numero di quelli omologati». Ma secondo Lamanna non è solo il concordato in bianco, ma il concordato in genere a produrre scarsi risultati: «Le procedure omologate nel 2008-2009 a distanza di cinque anni producono risultati di pagamento molto diversi dalle aspettative e dalle promesse fatte ai debitori. Quasi il 40% delle procedure non ha ancora distribuito un euro ai creditori chirografari».

Preconcordato e decreto del Fare. Da circa un mese è in vigore la legge di conversione del decreto del Fare, che con l’articolo 82 è intervenuto per modificare le norme sul concordato preventivo con l’intento di limitare gli abusi dell’istituto: incrementando le informazioni da fornire, prevedendo la nomina di una commissario giudiziale, aggiungendo obblighi informativi periodici.

Se il buongiorno si vede dal mattino, non pare che le novità normative stiano, per ora, stravolgendo l’andazzo fin qui tenuto: «Non è ancora possibile stimare, anche a causa del periodo feriale intercorso, se vi sia stato un effettivo calo delle domande di preconcordato», spiega Lamanna, «il decreto del Fare ha introdotto varie misure, ma solo quella che consente subito la nomina di un commissario giudiziale, che esercita una effettiva attività di controllo, si è rivelata effettivamente utile». Peraltro, continua il giudice, «la gestione corrente è ancora comunque nelle mani dell’impresa in preconcordato, la quale può compiere atti di ordinaria amministrazione senza necessità di autorizzazione, ma con il rischio di continuare una gestione in perdita. L’attività del commissario, inoltre, implica comunque un costo che sottrae attivo ai creditori, oltre le tante spese già previste. Sarebbe stata l’occasione giusta, introducendo la figura del commissario preconcordatario, di eliminare almeno quella, ormai sovrabbondante, del professionista attestatore, consentendo il risparmio del relativo costo, la sua attività di controllo e asseverazione potendo essere svolta, appunto, dal commissario».

Sotto un certo profilo aumentano i costi, dunque, ma almeno ciò servirà a ridurre gli abusi? «Restano ancora possibilità di abuso soprattutto in ”entrata”», risponde Lamanna, «quando cioè viene presentata una domanda di preconcordato sostanzialmente priva di contenuto (e detta non a caso domanda in bianco) al tribunale, sulla quale è difficile se non impossibile svolgere un controllo-filtro selettivo».

In questi casi, chiarisce il presidente del tribunale, «si reputa anzi inevitabile la concessione del termine che l’impresa in crisi richiede per poter produrre successivamente le proposte e i piani definitivi. Il commissario controlla infatti da vicino la gestione dell’impresa richiedente solo dopo che è stato nominato, dunque nel corso della procedura, ossia solo dopo che il tribunale ha già concesso il termine, sì che resta la possibilità, all’inizio, che siano presentate domande di preconcordato solo per rinviare le dichiarazioni di fallimento, con il rischio assai concreto che si aggravino nel frattempo le passività dell’impresa richiedente e si eroda ulteriormente l’attivo».

I numeri. Secondo le stime di settembre di Cerved Group, sono state presentate oltre 1.200 istanze nel secondo trimestre 2013, che hanno portato a 2.500 il totale dei concordati con riserva della prima metà dell’anno.

L’ampio utilizzo che le imprese italiane hanno fatto del concordato in bianco, si legge nel rapporto dell’Osservatorio sui fallimenti Cerved, ha determinato una forte impennata anche dei concordati tradizionali (comprensivi di un piano di risanamento): nel primo semestre dell’anno se ne contano più di mille, cui corrisponde un aumento dell’87,5% rispetto alla prima parte del 2012.

Dal punto di vista geografico, il fenomeno è esploso nel Nord Est (+64%), è aumentato di oltre un quarto nel Nord Ovest (+25,7%) e nel Mezzogiorno (+27,5%), mentre l’incremento è risultato più contenuto nel Centro Italia (+15,8%)