Le ultime proposte sulle pensioni riguardano i lavoratori anziani. Ma oggi i maggiori rischi di vivere una vecchiaia in povertà li corrono le nuove generazioni. Se non si interviene presto. Ecco come

 

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

 

Il tema delle pensioni è tornato in primo piano nei lavori che preparano il congresso del Pd. Uno dei candidati alla direzione del partito, Gianni Cuperlo, ne parla ogni volta che partecipa a un talk show televisivo, ricordando che il cantiere va riaperto. E non solo per il tema degli esodati.

Una posizione che è in linea con quella di Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera. Che nei giorni scorsi ha diramato una nota, che ricorda che alcuni punti del programma di governo ancora non affrontati. «Tra questi, quello della previdenza, sulla quale avvertiamo troppo silenzio. Per questo vorremmo chiedere al ministro Giovannini quante risorse, in miliardi di euro, il governo intende stanziare per affrontare l’emergenza sociale delle pensioni: lavoratori da salvaguardare, flessibilità nel sistema previdenziale, ricongiunzioni e rivalutazione delle pensioni medio-basse». Torna quindi il tema di una maggiore gradualità nell’uscita, soprattutto delle donne, che a causa della riforma Monti-Fornero hanno visto la data della pensione allontanarsi anche di sette anni.

Ancora una volta nel dibattito non entra invece la generazione dei lavoratori che hanno cominciato a versare contributi dopo il 1996. Quei 30-40enni soggetti a un sistema interamente contributivo senza poter contare su alcun trasferimento da parte dello Stato che integri la loro pensione.

Questi lavoratori pagheranno a caro prezzo la grande recessione che sta vivendo l’Italia, perché il montante viene rivalutato in base alla crescita del pil. Ma la maggior fonte di preoccupazione arriva dalla precarietà che oggi i giovani devono affrontare. Il sistema contributivo lega inesorabilmente l’assegno ai contributi che si riescono a versare durante l’intera vita lavorativa. Qualsiasi periodo di inattività costa in termini di mancati contributi. Che vanno quindi sia a pesare sull’assegno, ma anche sulla data in cui si potrà lasciare il lavoro. Il popolo dei giovani precari che riesce a ottenere un contratto a tempo indeterminato solo dopo molti anni dovrà fare i conti con assegni risicati e una pensione sempre più lontana. Ma non va meglio ai 40-50enni che in questi ultimi anni di crisi hanno magari dovuto cambiare lavoro, ma senza un passaggio diretto. Anche in questi casi i mesi o gli anni di inattività avranno un costo in termini di minor assegno. Peraltro i buchi nei versamenti allontanano la data in cui si può dire addio al lavoro. Come se non bastasse, andare in pensione più tardi comporta dover accettare coefficienti di conversione in rendita meno generosi. E oggi il precariato dilaga. Nel dossier curato dall’Associazione Lavoro&Welfare che riporta i dati di una ricerca Ires-Cgil, si legge che nel 2012 i lavoratori a tempo determinato e part-time erano più di 4 milioni. Rispetto al 2008, c’è stato un aumento di 718 mila unità (+21,4%). Nel frattempo i dipendenti stabili a tempo pieno sono in calo di 544 mila unità e gli autonomi full-time di 305 mila. Nel 2012 solo il 17% delle assunzioni è stata fatta a tempo indeterminato a fronte di un 83% di lavoratori a termine.

Come ricorda anche Michele Raitano, docente dell’Università Sapienza di Roma che ha dedicato al tema uno studio (Carriere Fragili e pensioni attese: quali correttivi al sistema contributivo?). «Dal punto di vista individuale, a parità di andamento aggregato di economia e demografia, nel contributivo la prestazione dipende solo da quanto si versa, quindi dall’interazione dei tre elementi fondamentali della carriera lavorativa, ovvero: la sua continuità e durata, quindi l’assenza di buchi lavorativi e/o contributivi, i livelli salariali e l’appartenenza a categorie che versano una maggiore aliquota». Se uno somma tutti questi fattori scopre che una carriera a singhiozzo può avere conseguenze davvero amare al momento della pensione. Come ricorda anche Raitano: «La principale criticità del sistema contributivo consiste nell’incapacità di garantire pensioni adeguate a chi, come molti fra gli attuali giovani, dovesse essere caratterizzato da carriere lavorative lunghe, ma fragili, in termini di livelli retributivi, rischi di disoccupazione ed aliquote di contribuzione. Ed è a tutela di questa evenienza particolarmente grave che le policy dovrebbero in primo luogo essere indirizzate», aggiunge Raitano. Per stimare l’impatto dei buchi contributivi sull’assegno finale, Progetica, società indipendente di consulenza finanziaria, ha considerato cinque profili (30-40-50-60enni) con tre differenti età di inizio contribuzione (20-25-30 anni) per dipendenti e autonomi.

«Per le prime tre generazioni (30-40-50enni, ndr) abbiamo simulato l’effetto di tre buchi contributivi di un anno nel corso dei dieci successivi, mentre per i 60enni si è ipotizzata l’interruzione dell’attività lavorativa», dice Andrea Carbone di Progetica.

Per misurare gli effetti è stato preso a riferimento uno scenario medio. Progetica ha stimato innanzitutto l’impatto delle interruzioni di lavoro sulla data attesa per il buen retiro. «Tipicamente i buchi possono far spostare in avanti l’età del pensionamento quando si è iniziato a lavorare presto, quindi quando si beneficia di un requisito basato sugli anni di contribuzione. Al contrario, chi ha iniziato a lavorare tardi beneficia solitamente di requisiti basati sull’età, che non risentono dei buchi contributivi», spiega Carbone.

Per questi motivi, tra i profili considerati, vi è un differimento dell’età pensionabile in conseguenza dei buchi contributivi solamente per chi ha iniziato a lavorare a 20 anni. C’è poi il capitolo legato alla riduzione dell’assegno pensionistico. «Qualora tuttavia il buco crei anche lo spostamento dell’età pensionabile, i due fenomeni potrebbero bilanciarsi: in ipotesi di continuità lavorativa fino alla nuova età pensionabile infatti, gli anni lavorati in più potrebbero più che compensare i buchi, grazie anche ai più favorevoli coefficienti di trasformazione», dice Carbone.

Questo fenomeno è osservabile nelle simulazioni per i dipendenti 40enni e 50enni che, a fronte di un differimento nel momento della pensione di oltre tre anni, avrebbero un aumento dell’assegno pensionistico del 7 e 5%.

Per tutti gli altri, con differenze in funzione del profilo, gli assegni calano di percentuali comprese tra il 2 e l’8%. Discorso a parte per i 60enni esodati che hanno iniziato a lavorare a 25 e 30 anni: poiché si tratta di profili con una forte componente retributiva, i circa 7 anni in meno di contributi si riflettono sia sulla componente contributiva che, soprattutto, su quella retributiva, con un calo stimato tra il 14% e il 18%. L’ultima colonna della simulazione di Progetica (si veda tabella) mostra il possibile effetto sulla diminuzione annua della pensione: in molti casi si tratta di cifre vicine a una mensilità di assegno pensionistico. «Ancora una volta, si sottolinea dunque l’importanza di monitorare attentamente la propria storia contributiva e di individuare lo stato dell’arte della propria pensione pubblica, pianificando per tempo eventuali integrazioni utili per quando si raggiungerà l’età della pensione», conclude Carbone.

Senza considerare che i lavoratori che ricadono nel sistema contributivo non hanno integrazioni al minimo e maggiorazioni sociali da parte dello Stato che invece integra le pensioni calcolate con il retributivo. Un allarme lanciato anche da Alberto Brambilla, responsabile della Giornata nazionale della previdenza. «Oggi su 23,5 milioni di pensioni erogate circa 10,5 milioni sono integrate dallo Stato: si tratta del 46% delle prestazioni in pagamento. Mentre per chi ha iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996 (ovvero i lavoratori cui si applica il metodo contributivo, ndr) la legge ha abolito qualsiasi forma di integrazione pensionistica, per cui se non avranno versato contributi sufficienti resteranno pensionati poveri», sottolinea Brambilla. Il problema va quindi affrontato partendo dal mercato del lavoro, perché il rischio di una caduta in povertà nel futuro per i giovani d’oggi non viene dal sistema di calcolo della pensione. «A creare pensioni inadeguate non è d’altronde il sistema contributivo in sé, bensì la coesistenza di rigide regole attuariali che impediscono forme di condivisione intra e intergenerazionali dei rischi cui sono esposti gli attuali lavoratori, di un’economia che cresce poco e di un mercato del lavoro segmentato, in molti casi poco remunerativo e spesso mal funzionante. Negli anni del boom economico del dopoguerra il sistema contributivo avrebbe infatti garantito pensioni più generose di quelle erogate dal retributivo», sottolinea Raitano. Il quale suggerisce che «anziché continuare a preoccuparsi di una sostenibilità finanziaria per definizione garantita dalla piena entrata in vigore della riforma del 1995, sarebbe auspicabile concentrarsi subito sui principali limiti dal lato dell’adeguatezza e pensare a strumenti che, pur rimanendo all’interno dell’architrave contributiva, i cui pregi micro e macroeconomici non vanno affatto trascurati, consentano di ridurre l’esposizione al rischio dei lavoratori più fragili». E proprio per evitare che ci sia un’amplia platea di pensionati poveri, secondo Raitano bisogna agire non soltanto nel mercato del lavoro, ma introdurre correttivi al sistema previdenziale in modo da creare garanzie che tutelino le prestazioni previdenziali dei lavoratori dalle carriere instabili o poco remunerate. Secondo Raitano ci vorrebbe un meccanismo di garanzia che, in linea con le logiche del sistema contributivo, offra una prestazione minima prestabilita di importo che vari in funzione del numero di anni trascorsi sul mercato del lavoro e dell’età di ritiro. Raitano ritiene che questa proposta porti a risultati migliori di quelli ottenibili con una nuova riforma strutturale del sistema previdenziale che realizzi uno schema pubblico a due pilastri. È lo schema predisposto qualche tempo fa, in un decreto bipartisan, da Giuliano Cazzola e Tiziano Treu, che prevede una pensione di base flat di ammontare indipendente dalla precedente contribuzione e finanziata dalla fiscalità generale, erogata a tutti i cittadini anziani (che abbiano almeno dieci anni di residenza legale e contribuzione in Italia). Accanto a questa ci sarebbe un secondo pilastro che funzionerebbe in base alle regole del contributivo, ma con un’aliquota di versamento del 26% per tutte le categorie di lavoratori.

Certo, c’è il problema di trovare le risorse che vadano a finanziare nuovi interventi, quando lo Stato già oggi fa fatica a far quadrare i conti con gli impegni di contenimento della spesa pubblica e su cui pende anche la spada di Damocle del Fiscal compact, che prevede una riduzione graduale del debito dal 2015 in poi. Visto che la coperta è corta, uno dei possibili sistemi per trovare i fondi è introdurre un meccanismo di solidarietà tra le pensioni retributive oggi erogate (e non coperte dai contributi versati) al fine di costruire un fondo di garanzia per i futuri pensionati.

Una misura che appare sempre più urgente, se si valuta un’altra voce di spesa destinata a cambiare, ossia quella dell’assistenza sanitaria. La nota di aggiornamento del Def del 20 settembre scorso prevede per i prossimi anni «una progressiva riduzione della spesa sanitaria in rapporto al pil dall’attuale 7,1 al 6,7% nel 2017». Non solo. La nota indica che «occorre ripensare un modello di assistenza finalizzato a garantire prestazioni non incondizionate, rivolte principalmente a chi ne ha effettivamente bisogno». Si tratta di un’indicazione programmatica che andrà poi declinata, ma che comunque sembra indicare una volontà di restringere la platea di chi ha diritto a una copertura sanitaria completa.

Accanto c’è un’altra indicazione che riguarda i livelli essenziale di assistenza che, secondo la nota, andranno ridisegnati in modo da individuare le cure che hanno il miglior rapporto costo/efficacia. Di fatto, oltre a una magra pensione, la generazione di chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 1996 dovrà fare i conti con un welfare sempre meno esteso e sempre più selettivo. In poche parole, l’assegno Inps sarà più basso e le spese da sostenere, come quelle mediche, saranno più alte. Perché lo Stato riduce il perimetro di assistenza. (riproduzione riservata)