Meglio lasciare il tfr in azienda oppure versare la liquidazione ai fondi pensione? La riforma del 2007 ha dato ai lavoratori la possibilità di versare ai prodotti di previdenza complementare anche il tfr, accanto ai contributi. Anzi, l’adesione avviene con il silenzio-assenso, quindi il dipendente che non effettua alcuna scelta di trova automaticamente iscritto al fondo pensione di riferimento con il proprio tfr.

Per mantenere la liquidazione presso il proprio datore di lavoro bisogna fare esplicita richiesta. E in un momento in cui i mercati finanziari sembrano stabilizzarsi e l’inflazione è ai minimi sempre più lavoratori si chiedono se sia meglio avere la certezza di una rivalutazione fissa, come quella del tfr che rimane in azienda, oppure se renda di più affidarsi ai fondi pensione. Da una parte c’è la sicurezza di avere una rivalutazione pari all’1,5% più il 75% dell’inflazione Istat, un meccanismo di calcolo che però in una fase di contenuta variazione del costo della vita come l’attuale non assicura rendimenti elevati. Dall’altra parte investire in un fondo pensione significa sposare le incognite dei mercati finanziari.

 

Quel che è certo è che di una pensione di scorta ci sarà sempre più bisogno perché l’assegno pubblico è destinato a dimagrire e per le giovani generazioni la costruzione di una stampella privata diventa imprescindibile. Tanto più che la prolungata crisi economica in corso impoverisce ancora di più la pensione di Stato perché essa è agganciata alla crescita del pil. Il montante contributivo accumulato dal lavoratore durante l’attività viene infatti rivalutato in base alla media del pil degli ultimi cinque anni. Un Paese in recessione o che cresce poco, come l’Italia, produce quindi assegni magri. Di qui la necessità di pensare per tempo a integrare l’assegno pubblico. In tema di previdenza prima si parte e meglio è. E proprio sulla lunga distanza i fondi pensione battono il tfr, mentre nel breve periodo fanno un po’ più fatica a superare l’asticella del trattamento di fine rapporto. Come emerge da una simulazione condotta dalla società di consulenza indipendente Progetica che ha effettuato un’analisi confrontando tfr e strumenti di previdenza complementare in un’ottica storica. L’analisi di Progetica si basa sui dati dal 1970 al 2012 considerando le performance storiche pure di questi 40 anni e confrontando i rendimenti di tutti i periodi da 1-5-10-20 anni in questo orizzonte temporale. Per esempio, il confronto sui 20 anni ha analizzato le performance 1970-1989, 1971-1990 e così via fino al 1993-2012. I costi e la fiscalità non sono inclusi. «La sintesi dei confronti viene espressa tramite percentuali, che mostrano quante volte le forme previdenziali garantite e azionarie hanno battuto il tfr in un dato intervallo di tempo. Il confronto, che paragona i puri rendimenti di mercato, conferma che, al crescere dell’orizzonte temporale considerato, sia una forma di mercato garantita al 2% sia una azionaria hanno battuto sempre il tfr», sottolinea Andrea Carbone di Progetica Già a un anno, spiega ancora Carbone, «una forma garantita batterebbe 8 volte su 10 il tfr, avvicinandosi al 100% a cinque anni. Differente il confronto con una linea azionaria, che invece risente sia a uno che a cinque anni delle oscillazioni dei mercati. Sul lungo periodo, i 20 anni in questa simulazione, anche l’azionario supererebbe sempre il tfr». Questo in termini di puro confronto finanziario. «Introducendo il tema dei costi e della fiscalità, bisognerebbe considerare che sulla forme previdenziali gravano i costi di adesione e di gestione annua, sul tfr grava una fiscalità (tassazione separata, ndr) con aliquote simil-Irpef e sulle forme previdenziali vi è una fiscalità agevolata dal 15 al 9%», conclude Carbone. Oltre alla deduzione fiscale di 5.164,57 euro l’anno che è prevista per i contributi che vengono versati ai fondi, in aggiunta al tfr. Guardando invece ai dati del primo semestre di quest’anno, emerge che il tfr si è rivalutato dell’1%, mentre i fondi pensione negoziali in media hanno offerto l’1,3%. Meglio è andata ai fondi pensione aperti che hanno registrato un +2,6% medio grazie al maggior contenuto azionario di questi comparti che hanno potuto cavalcare il buon andamento delle borse. Proprio sul fronte dei fondi pensione aperti c’è però chi è riuscito a guadagnare nel semestre anche oltre il 9%. È il caso delle linee Alta Crescita R e C (rispettivamente +9,5 e +9,27%) offerte da Arca Previdenza, il maggior gestore di fondi aperti in Italia per patrimonio netto e numero di iscritti. Seguono il comparto CreditRasUnicredit Linea Dinamica (+9,21%) e Ras Insieme Linea Dinamica (+9,06%). Allungando l’orizzonte temporale sui 10 anni ci sono fondi che hanno reso oltre il 50%. A partire dalla linea Sai Comparto Previglobal (+76%) e da Sai Comparto Previ Europa (71,5%).

 

Sul fronte delle polizze di tipo pip (piani individuali pensionistici) c’è da dire che le linee garantite offrono una maggiore stabilità di risultati perché si tratta di gestioni separate che valutano i titoli in portafoglio al costo storico e quindi non sono esposte alle oscillazioni dei mercati. Diverso il discorso dei pip di tipo unit linked, che sono veri e propri fondi. Il problema per tutti è il costo: a fronte di una consulenza che a volte lascia a desiderare questi prodotti mostrano commissioni più elevate della media (anche se non mancano eccezioni). D’altra parte, essendo polizze, l’offerta di coperture assicurative accessorie è in media maggiore. La previdenza può infatti anche passare attraverso l’abbinamento ai fondi pensione di specifiche coperture assicurative, sottoscrivendo una sorta di pacchetto «tutto incluso». E il mercato, specie quello delle polizze pip, si è attrezzato per offrire la possibilità di associare in via opzionale (in qualche caso anche obbligatoriamente) una o più garanzie accessorie per tutelare in maniera globale l’aderente. Incluse le coperture caso morte e le long term care, che assicurano il rischio di perdita di autosufficienza, su cui però si è abbattuto il recente provvedimento del governo che ne ha ridotto l’appeal fiscale tagliando drasticamente le possibilità di detrazione dei premi. Una mossa non lungimirante, dato che il welfare integrativo oggi dovrebbe essere incentivato e non penalizzato. (riproduzione riservata)