di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’attacco al fortino delle pensioni è partito prima dell’estate. E ora si prepara la battaglia finale in Parlamento. L’8 ottobre approderà in aula la proposta di legge bipartisan 5.103, portata avanti dall’ex ministro Pd Cesare Damiano, che in commissione lavoro è stata votata da tutti con l’eccezione del pdl Giuliano Cazzola. La proposta punta a stravolgere la riforma Fornero reintroducendo la possibilità fino al 2017 di lasciare il lavoro sotto i 60 anni con 35 anni di contributi per i dipendenti (a 60 per gli autonomi), una rivisitazione del vecchio sistema delle quote previsto proprio dalla legge Damiano del 2007. Inizialmente la proposta di legge, che ha iniziato il suo iter a marzo, puntava a tutelare gli esodati, ma via via è partito un vero e proprio assalto alla diligenza perché sono state inserite proposte che stravolgono l’assetto attuale. E che sono una minaccia per i conti dell’Inps, che la riforma Fornero ha cercato di rimettere in carreggiata, ma che ancora non godono di buona salute sotto il peso di una popolazione, quella italiana, sempre più anziana. Senza dimenticare il peso ancora rilevante delle pensioni calcolate con il generoso metodo retributivo. La scelta del ministro Elsa Fornero di introdurre il sistema contributivo per tutti, seppur in forma pro-quota, con la soppressione delle pensioni di anzianità, ha evitato il peggio per il bilancio della previdenza obbligatoria italiana. Ma ora il sistema è messo a rischio da quella che è già stata definita la controriforma delle pensioni, che punta a garantire l’accesso anticipato alla pensione ai lavoratori che siano in possesso di alcuni requisiti, calcolando però la pensione con il metodo esclusivamente contributivo. In particolare dal 2013 al 2015 l’accesso anticipato è consentito ai lavoratori con anzianità contributiva pari a 35 anni ed età anagrafica pari o superiore a 57 anni, per le lavoratrici dipendenti, a 58 anni per le lavoratrici autonome e per i lavoratori dipendenti, a 59 anni per i lavoratori autonomi. Mentre dal 2016 al 2017 l’accesso anticipato è consentito ai lavoratori con anzianità contributiva pari a 35 anni ed età anagrafica pari o superiore a 59 anni per i lavoratori e le lavoratrici dipendenti e a 60 per anni per i lavoratori e le lavoratrici autonome. Si amplia quindi una possibilità già prevista dalla riforma Fornero a una vasta platea di lavoratori. Con il rischio di un moltiplicarsi di richieste di pensione anticipata che andrebbero a pesare da subito sui conti dell’Inps. Chi è vicino alla soglia dei 60 anni infatti potrebbe chiedersi, nel caso di una differenza per esempio di cinque anni, se è meglio andare in pensione cinque anni prima con una pensione inferiore o attendere la maturazione dei normali requisiti. In molti casi potrebbe convenire l’anticipo non solo perché si può lasciare il lavoro prima, ma anche perché di fatto si percepiscono cinque anni in più di pensione, una somma che può più che compensare la riduzione dell’assegno. Ragionamenti che già oggi riguardano le donne di 57 anni che possono chiedere un anticipo dell’addio al lavoro. La riforma Fornero ha confermato l’opportunità introdotta in via sperimentale fino al 2015 dalla legge 243/2004 in base alla quale le donne possono andare in pensione a 57 anni con 35 anni di contributi, ma il loro assegno è puramente contributivo. Questo vuol dire che una lavoratrice dipendente nata nel 1957 che ha iniziato a lavorare a 23 anni potrebbe andare in pensione a 57 anni e nove mesi con il 58% dell’ultimo stipendio, mentre una sua collega nata l’anno dopo dovrebbe aspettare 65 anni e 9 mesi con un assegno, però, pari al 75% dell’ultimo stipendio. La scelta è quindi tra lavorare otto anni di più e avere una rendita più ricca perché calcolata anche con il retributivo. Oppure lasciare prima ma con un’entrata ridotta del 17%. Un dilemma che potrebbe riguardare molti lavoratori under 60 se passasse la controriforma proposta in Parlamento (grafico a pagina 16). Quanto costerebbe ai conti dello Stato questa controriforma? Nel testo approvato dalla Commissione della camera gli oneri sono quantificati in 240 milioni di euro per il 2013, 630 milioni per il 2014, 1.040 milioni per il 2015, 1.220 milioni per il 2016, 1.030 milioni per il 2017, 610 milioni per il 2018 e 300 milioni a decorrere dal 2019. In tutto si tratta quindi di oltre 5 miliardi che andrebbero coperti con un aumento delle imposte sui giochi. Una strada che, però non è percorribile secondo il Tesoro. «Il calo delle giocate registratosi per la prima volta negli ultimi anni nel primo semestre del 2012, da interpretare come un effetto, in tale settore, dell’elasticità della domanda rispetto al prezzo», spiega il sottosegretario all’economia Vieri Ceriani, «induce a ritenere che un aumento del prelievo provocherebbe in questo momento, con molta probabilità, un’ulteriore diminuzione del gettito, che non soltanto impedirebbe di reperire le risorse necessarie per finanziare il provvedimento in esame, ma metterebbe anche a repentaglio la copertura prevista da precedenti provvedimenti a valere sulle entrate erariali derivanti dai giochi pubblici». In sostanza quindi va trovata un’altra copertura alla legge, ma va anche valutata l’opportunità di mettere in piedi oggi una controriforma delle pensioni.

Una mossa che ha tutto il sapore di propaganda elettorale, quanto mai inopportuna in questo delicato momento per l’Italia che a fatica, e anche grazie alla dura riforma delle pensioni, è riuscita a riconquistare fiducia sui mercati. Una marcia indietro su questo fronte rischierebbe di vanificare gli sforzi fatti per risanare i conti pubblici del Paese con il rischio di nuove tasse. Come ha dichiarato anche il ministro Fornero in una lettera inviata a inizio agosto alla commissione lavoro della Camera in occasione della discussione della proposta 5.103. Il ministro del welfare sottolineava che il problema degli esodati non è risolto (e che è stato costituito un gruppo di lavoro ad hoc a cui partecipano Inps e ministeri coinvolti) ma il tema va affrontato con gradualità e tenendo conto delle risorse limitate a disposizione. «Il Governo è consapevole del fatto che si tratta di una questione, peraltro in divenire, per la quale è necessario effettuare sforzi ulteriori. Ritengo che occorra fare ogni sforzo per evitare anche il solo rischio di adottare misure che, se non adeguatamente comprese anche in sede internazionale, potrebbero avere l’effetto di compromettere gli sforzi di stabilizzazione finanziaria sin qui profusi dal Parlamento, dal Governo e dal Paese», scriveva il ministro Fornero. Gli stessi dubbi sollevati da Cazzola, capogruppo Pdl nella commissione lavoro della Camera, che inizialmente aveva firmato il testo originario della proposta di legge pro-esodati ma che poi ad agosto si è sganciato. Secondo Cazzola sul problema degli esodati si sarebbe potuto elaborare un testo unificato secondo scansioni temporali di più corto periodo, ovvero in concomitanza con la progressiva applicazione della riforma previdenziale, «evitando di determinare a priori, come prevede il testo in esame, un percorso di deroga a lungo termine, che arriverebbe a coprire sin d’ora lavoratori con diritto a pensione a decorrere dal 2019». Lo stesso Cazzola nei giorni scorsi, dopo la notizia della calendarizzazione in aula l’8 ottobre, ha detto di considerare propagandistica questa scelta per un provvedimento oneroso ma privo di una copertura finanziaria adeguata. «È bene non dimenticare», ha aggiunto Cazzola, «che la riforma Fornero, contiene una norma di garanzia che scarica i relativi oneri, si tratta a regime di alcuni ulteriori miliardi in aggiunta ai 9 già stanziati, sulle aliquote degli ammortizzatori sociali e quindi sul costo del lavoro». Damiano, dal canto suo, è pronto a dare battaglia a favore dei lavoratori rimasti senza reddito a seguito della riforma Fornero. Ma il problema è che il testo definitivo non riguarda solo più gli esodati, ma una più vasta platea di lavoratori. E rappresenta un passo indietro nella strada per una maggiore equità tra generazioni. Per quanto riguarda il diverso trattamento previdenziale dei giovani rispetto ai loro genitori il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua ha più volte sottolineato: «L’equità resta un tema che dovrebbe essere preso in considerazione, c’è una disparità tra chi percepisce le pensioni e chi invece dovrà contare su un puro sistema contributivo. Una parte dei lavoratori oggi riceve nella pensione un’integrazione da parte dello Stato rispetto a quanto ha versato, circa il 30-40% in più di quanto avrebbe con un sistema contributivo ». Sulla stessa lunghezza d’onda Alberto Brambilla, presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale: «Oggi 7 milioni di pensionati portano a casa meno di mille euro al mese e ricevono un’integrazione alla pensione da parte dello Stato. Con il sistema contributivo non sarà più così perché si ottiene solo quanto versato. Quindi i giovani che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996, per i quali si applica il metodo contributivo, non avranno per legge integrazioni al minimo e maggiorazioni sociali». Ma l’urgenza di integrare la pensione pubblica non verrà compresa appieno finché l’Inps non rivelerà la pensione che ognuno può attendersi di ricevere.Mastrapasqua ha detto che per Natale l’Inps offrirà a tutti i lavoratori attivi iscritti, a parte quelli Inpdap, il prospetto dei contributi versati e la simulazione delle rispettive pensioni. «I cittadini hanno diritto di sapere quello che lo Stato non gli ha detto per anni», ha detto Mastrapasqua. E gli assegno futuri devono anche fare i conti con la recessione in atto perché le pensioni sono legate all’andamento del pil. E ancora una volta si riaffaccia il tema della crescita, come emerge anche dall’ultimo rapporto del Nucleo di valutazione pubblicato recentemente: «Nel triennio 2007-2010, l’incidenza della spesa pensionistica sul prodotto interno lordo ha ripreso a crescere in misura abbastanza sensibile, passando dal 13,5% del 2007 al 15% del 2010». Questi dati confermano il fatto che la crisi economica comporta inevitabilmente un aumento dell’incidenza della spesa pensionistica e il conseguente rischio di oscurare gli sforzi normativi fatti, a partire dai primi anni 90, per stabilizzare il suo peso relativo sul pil. L’insieme delle riforme fatte negli ultimi 20 anni e portate a compimento proprio con la legge Fornero di dicembre del 2011 hanno messo il sistema previdenziale italiano in una posizione molto più sicura e sostenibile sia dal punto di vista finanziario che dell’adeguatezza delle prestazioni, ma resta il nodo della crescita economica. «Se il Paese non cresce in termini di occupazione e produttività e continua a presentare un alto livello di evasione contributiva molto potrebbe essere vanificato, si legge nel rapporto del Nucleo di valutazione che fotografa lo stato dell’arte del mercato del lavoro italiano: «Nel 2010 il tasso di occupazione complessivo è di 7,5 punti percentuali sotto la media Ue a 27. Per l’occupazione femminile siamo a -12,6 punti percentuali dalla citata media Ue; non va meglio per l’occupazione degli over 55 anni (-9,7% rispetto all’Ue). Decisamente ultimi in classifica per il tasso di occupazione dei giovani tra i 20 e 29 anni (-13,8% rispetto alla Ue). Un sistema Paese con poca occupazione e scarsa produttività (10 punti percentuali in meno negli ultimi dieci anni rispetto alla media europea), ma con tassi di sopravvivenza molto elevati ha di fronte una sfida molto impegnativa rispetto alla quale il processo di riforma del sistema pensionistico ha rappresento un tassello estremamente importante. Un ulteriore incremento della spesa, sia essa assistenziale sia di sostegno al reddito, appare di difficile sostenibilità nel contesto dei prossimi anni». Ecco perché il Paese farebbe fatica a permettersi una controriforma delle pensioni. (riproduzione riservata)